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1 Beato Alberto da Chiatina -
+ 1202
Etimologia: Alberto = di illustre nobiltà, dal tedesco
Martirologio Romano: A Colle di Val d’Elsa vicino a Siena, Beato Alberto, sacerdote, che offrì al popolo un insigne esempio di virtù.
L’arciprete della pieve di Colle nacque a Chiatina nel 1135, uno dei tanti castelli medievali che sorgeva nelle Crete Senesi, nella giurisdizione ecclesiastica del Vescovado d’Arezzo; oggi al suo posto sorge una villa padronale e rientra nel territorio dell’Abbazia di Monteoliveto Maggiore. Ignoti rimangono i nomi dei genitori che, secondo le agiografie, appartenevano alla piccola nobiltà del luogo.
Fin da subito, Alberto mostrò un’indole buona ed un certo ingegno tanto che i genitori pensarono bene indirizzarlo non alle imprese cavalleresche proprie del suo tempo e del suo rango, ma agli studi ed al ministero sacerdotale, che più gli si confacevano.
Durante gli anni di studio, egli si rese conto che l’istruzione intellettuale disunita dalla pratica della virtù non lo avrebbe condotto a nulla di buono e così iniziò a trascorrere molte ore, anche di notte, nella meditazione e nella preghiera.
All’età di ventotto anni, venne ordinato sacerdote e gli fu affidata la pieve di S. Maria in Pava, poco lontana da Chiatina.
Qui, la sollecitudine nell’adempiere al ministero sacerdotale procurò ad Alberto l’affetto e la venerazione di tutto il suo popolo, ma anche la manifesta ostilità del signorotto locale, cosicché, trovandosi ostacolato e vedendo che la propria fermezza diveniva anche pericolosa ai suoi popolani, rinunciò alla pieve e si trasferì in Siena, dove, per la fama di santità che lo aveva preceduto, gli fu affidata la chiesa di S. Andrea dentro le mura urbane (1175).
A due anni di distanza, nel 1177, il Papa Alessandro III, senese, che probabilmente aveva posto lo sguardo su Alberto, lo nominò arciprete della pieve ad Elsa, posta lungo la Via Francigena, appena fuori dal borgo di Gracciano.
Si trattava di una nomina importante: l’Arcipretura era, infatti, da tempo immemorabile nullius Dioecesis, ovvero, pur rientrando formalmente nel territorio diocesano di Volterra, dipendeva direttamente dal Sommo Pontefice.
Eletto dai chierici del capitolo con l’approvazione della Santa Sede e senza l’intervento del vescovo di Volterra, l’arciprete giurava fedeltà soltanto alla Chiesa Romana ed, entro i ristretti confini della Plebania, esercitava una giurisdizione quasi vescovile: aveva l’autorità di consacrare chiese e cappelle, di spedire bolle per le parrocchie, promulgare editti e fulminare scomuniche, di far lettere dimissorie per tutti gli ordini sacri e dispense per gli impedimenti matrimoniali, nonché di usare il pastorale nelle celebrazioni delle Messe e dei vespri solenni.
Il suo infaticabile apostolato a Gracciano non poté durare che soli quattro o cinque anni, dopo i quali, Alberto si coprì di piaghe e rimase infermo fino alla morte: tra la pelle e le ossa era pieno di putredine maleodorante, che usciva in gran quantità, particolarmente d’estate; gli rimase libera solamente la testa, sicché continuò ad esercitare il ministero sacerdotale dal proprio letto.
Non si udì mai un lamento, anzi egli affermava che questo supplizio era dovuto ai suoi peccati. Per questi fatti, sin dalle più antiche agiografie, viene chiamato “il Santo Giobbe della Toscana”.
La fama di quel lungo ed eroico martirio, tanto serenamente sofferto, si diffuse anche oltre la Toscana, tanto che alcuni cardinali della Curia Romana, vescovi, abati ed altri illustri personaggi si fermavano a Colle, sia per ammirare la celebrata virtù dell’arciprete sia per chiedere l’intercessione della sua preghiera.
Intanto, gli anni trascorrevano senza che la malattia accennasse a scomparire.
Nel 1185, avendo raggiunta l’età di cinquanta anni, S. Alberto presentò al Papa una supplica per essere esonerato dalla dignità arcipretale e sostituito nella cura delle anime.
Dopo un primo rifiuto, la supplica fu accolta, sembra nel 1191. Due successori lo videro ancora sofferente.
In quegli stessi anni, teatro di guerre tra opposte fazioni politiche ed opposte città, Gracciano era fatto oggetto di ripetuti attacchi da parte delle milizie senesi.
Con il probabile intento di riparare in luogo più sicuro, l’arciprete Alberto spostò la sede plebana da Elsa alla chiesa del SS. Salvatore, posta nel castello di Colle e futura cattedrale.
Contemporaneamente gran parte della popolazione abbandonò l’antichissimo insediamento e seguì l’arciprete per unirsi alla popolazione colà residente ed organizzarsi in libero Comune (1195). Gracciano, invece, nella prima metà del Duecento venne raso al suolo dai senesi, i quali rispettarono unicamente la chiesa.
Si può, pertanto, osservare che l’unione del popolo nel nascente Comune di Colle di Val d’Elsa ha coinciso con la lungimirante azione del santo arciprete Alberto e non sorprende che, per molti secoli dopo la sua morte, il Comune riconoscente gli tributasse onori e festeggiamenti solennissimi.
Liberato del peso e della responsabilità dell’arcipretura, negli undici anni che seguirono all’accettazione delle dimissioni, il Santo volle dedicare tutto il suo tempo all’orazione, alla meditazione ed all’offerta delle proprie sofferenze. La pietà di S. Alberto si esprimeva, in un modo tutto particolare, nei confronti della preziosa reliquia del S. Chiodo, che si reputava indegno di toccare se non attraverso un paio di guanti, i quali si conservano ancora intatti.
Nell’iconografia, infatti, egli è rappresentato o nell’atto di venerare il S. Chiodo o con la stampella, segno questa del suo lento e doloroso martirio.
Dopo venticinque anni di sofferenze continue, all’età di sessantasette anni, Sant' Alberto da Chiatina morì: era il 17 agosto 1202. Subito i presenti furono testimoni di un singolare miracolo: il corpo del Santo, fino ad allora ricoperto di piaghe maleodoranti, apparve agli occhi di tutti integro e sano in ogni sua parte.
Episodi miracolosi o almeno singolari si verificarono anche presso il suo catafalco funebre.
Portato il corpo venerando nella pieve del SS. Salvatore ed esposto alla pietà dei fedeli, la chiesa divenne meta di folle devote che si susseguirono a lungo, chiedendo l’intercessione del Servo di Dio e cercando di tagliuzzarne le vesti sacre. Numerosissime furono le grazie, tra le quali si leggono nelle antiche storie le seguenti:
“Una fanciulla detta Buonasera, e con essa lei un altro Atratto furono portati al suo Feretro, et ambedue, hebber quanto desiderarono. Matteo da Sovicille stato 14 anni sordo, udì come prima. Un studente da S. Cerbonio ricuperò un de’Lati, che havea perduto. Lucia, stata otto anni ossessa dal Demonio, fu la prima, non già l’ultima ad esser liberata. Un putto di Riccardino da Colle gravemente infermo, portato alla sua Sepoltura, fuggì da Quello l’Infermità, e la Morte. Gibaldo da Silano, fù consolato havendo menato al Sepolcro del Santo un figlio, et una sua figlia, i quali stracciavano, e rompevano quanto potevano haver nelle mani. Tre Prigioni di Massa con altri furono liberi, portando al Deposito del Santo, i lacci, e le catene. Belcolore, hebbe grazia ancor lei adoprar’non che distender la Mano, Attratta. Un Giovanetto da Travale scherzando con un Coltello in mano, se lo ficcò in uno degli Occhi: la povera Madre lo raccomandò al Santo, e doppo essersi riposato alquanto, si levò di letto, come se mai havesse havuto male alcuno. E Gisia Fanciullina di tre anni di Berlinghieri da Elci scherzando con sue pari, cadde in un Pozzo senza sponde, di altezza di 60 braccia: quando la desideravano, per darle Sepoltura, la cavarono viva, e per più stupore, i suoi panni non erano punto bagnati. A questo vi fu presente L’Arciprete con tutto il Clero per vedere sì gran maraviglia”.
Finalmente fu possibile dare sepoltura a quelle spoglie venerate nella chiesa, sulla quale, più tardi, fu eretta la cattedrale. La testa, invece, fin da subito venne conservata in un reliquiario. Nel 1618 il corpo, del quale si era persa l’esatta ubicazione, venne ritrovato inserito dentro l’altare della vecchia cappella del S. Chiodo, sotto la pietra della mensa. Il 1° luglio 1620 la reliquia del S. Chiodo, quelle di S. Alberto e tutte le altre furono trasportate con solenne funzione nella nuova cattedrale e poste in adatti tabernacoli entro la cappella che appunto dal S. Chiodo ebbe nome.
In seguito le reliquie di S. Alberto, forse a causa dei nuovi lavori che furono fatti, vennero trasportate nella Sacrestia Capitolare, finché nel 1890 fu eretta la cappella di S. Alberto in quella già sotto il titolo di S. Gregorio Magno (n. X), dove, entro un’urna, riposa il corpo del santo arciprete, che con cura e secondo le leggi canoniche è stato ricomposto e vestito degli abiti sacerdotali, propri della sua dignità ecclesiastica.
Oltre che un Santo della Chiesa, Alberto da Chiatina è stato anche un personaggio di fondamentale importanza nella nascita della comunità colligiana e meritatamente, ad oltre sette secoli di distanza, lo ricordiamo quale nostro protettore. (Fonte: La Cattedrale di Colle di Val d'Elsa", Colle, 2001, Pro Loco)
Giaculatoria -
2 Sant' Anastasio di Terni -
Etimologia: Anastasio = risorto, dal greco
Emblema: Bastone pastorale
Ignoto fino al sec. IX, le notizie esistenti, purtroppo viziate da un certo spirito campanilistico, sono del sec. XV, a cui risale la più antica copia del testo che ci riferisce l'invenzione e traslazione del suo corpo, avvenuta, pare, al tempo del re Lotario (840).
Una notte il Santo sarebbe apparso ad un contadino di Castro S. Geminiano ordinandogli di recarsi a Terni nella chiesa della Vergine e di ricercare il suo corpo sepolto a sinistra dell'ingresso. Il contadino dapprima trascurò l'ordine ricevuto, ma poiché il Santo continuava nel suo comando si arrese; purtroppo le sue ricerche rimasero infruttuose. Poco dopo però, dovendosi seppellire un defunto nella stessa chiesa, si trovò occasionalmente il sepolcro di Anastasio Apertolo apparve il corpo rivestito di abiti pontificali preziosi. L'accaduto fu riferito al vescovo di Spoleto, che accorso sul posto e convinto dai miracoli operati dal Santo, gli fece erigere un altare. Se la predetta relazione merita fede almeno per la sostanza del fatto, bisogna ammettere che Anastasio sia vissuto molto tempo prima dell'invenzione del suo corpo, se a Terni se ne era perduta ogni memoria. Il suo nome fu inserito nel Martirologio Romano nel 1518 e la commemorazione fissata al 1 7 agosto. (Autore: Agostino Amore – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria -
3 Beato Bartolomeo Laurel -
Messico, XVI sec. -
Nativo del Messico, aveva vestito l'abito religioso e professato la regola di San Francesco come fratello laico.
Divenne poi il compagno indivisibile del Beato Francesco di S. Maria, dei Minori, col quale passò, nel 1609, a Manila nelle isole Filippine e quindi, nel 1622, in Giappone, lavorando come medico e adoperandosi nel disporre i fedeli a ricevere i sacramenti e i pagani a venir alla fede e dando continui esempi di umiltà, di mortificazione, di modestia e di zelo.
Insieme col p. Francesco di S. Maria e cinque altri compagni, fu arso vivo in Nagasaki il 17 agosto 1627.
Fu beatificato il 6 luglio 1867. (Autore: Ferdinand Baumann – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria -
4 Santa Beatrice de Silva Meneses -
Campo Mayor, Portogallo, ca. 1424 -
Beatrice de Silva Meneses, santa portoghese, è nata a Ceuta (Nord Africa) nel 1424 in una famiglia nobile.
Sorella del Beato Amedeo de Silva, Beatrice era imparentata con la famiglia reale portoghese.
La sua bellezza e la sua virtù, attira i nobili castigliani; ciò suscita la gelosia della regina Isabella che la rinchiude per tre giorni in una cassapanca, mettendola a rischio di perdere la vita.
Liberata, fa voto di castità e parte a Toledo.
Si racconta che ad accompagnarla nel viaggio sono le apparizioni di San Francesco d'Assisi e di Sant'Antonio di Padova; arrivata a Toledo entra nel convento cistercense di San Domenico, dove vive per circa trent'anni.
Grazie all'appoggio di Isabella la Cattolica, futura regina di Spagna, che dona a Beatrice il palazzo di Galiana in Toledo, con l'annessa chiesa di Santa Fè, la religiosa fonda l'ordine dell'Immacolata Concezione.
Muore a Toledo il 1° settembre 1490. È proclamata Santa nel 1976 da Paolo VI. (Avvenire)
Emblema: Pastorale, giglio, stella sulla fronte,
Martirologio Romano: A Toledo nella Castiglia in Spagna, Santa Beatrice da Silva Meneses, vergine, che fu dapprima nobildonna della corte regia al seguito della regina Isabella; successivamente, desiderosa di una vita di maggior perfezione, si ritirò per molti anni tra le monache dell’Ordine di San Domenico, fondando infine un nuovo Ordine che intitolò alla Concezione della Beata Maria Vergine.
É una Santa del Portogallo, vissuta in quel periodo di grande movimento politico, storico, culturale e religioso che precedette e fu contemporaneo dell’impresa di Cristoforo Colombo e della scoperta dell’America, avvenuta nel 1492.
Beatrice nacque a Campo Mayor nel 1424 in una famiglia nobile, sorella del Beato Amedeo de Silva e imparentata con la famiglia reale portoghese.
Accompagnò l’Infante Isabella del Portogallo come dama di onore, quando questa nel 1447 sposò Giovanni II di Castiglia; la sua bellezza e la sua virtù, attirò i nobili castigliani, che si contesero la sua amicizia e il suo amore;
ciò suscitò la gelosia della regina Isabella che la maltrattò, fino a chiuderla per tre giorni in una cassapanca, mettendola a rischio di perdere la vita.
Una volta liberata, fece voto di castità e di nascosto, partì diretta a Toledo; la tradizione dice che l’accompagnarono nel viaggio le apparizioni di San Francesco d’Assisi e di Sant’ Antonio di Padova; giunta a Toledo entrò nel monastero domenicano di San Domenico "El Real", dove visse per circa 30 anni.
Ma in lei già da tempo vi era il desiderio di fondare un nuovo Ordine religioso in onore dell’Immacolata Concezione, per questo scopo ottenne l’appoggio di Isabella la Cattolica (1451-
Beatrice nel 1484 si trasferì nella nuova residenza con dodici compagne, dando così inizio ad una nuova Famiglia monastica, l'Ordine della Immacolata Concezione, la cui Regola venne scritta da lei stessa.
L'Ordine fu approvato da Papa Innocenzo VIII il 30 aprile 1489.
Dopo aver ricevuto l’abito ed emesso i voti religiosi, morì a Toledo il 1° settembre 1490, alla vigilia della professione religiosa del primo gruppo del nuovo Ordine; precursore del culto e della teologia del dogma dell’Immacolata Concezione, che sarà proclamato circa 400 anni dopo da Pio IX.
Il suo culto instauratosi spontaneamente nel mondo francescano e iberico, fu confermato con il titolo di Beata il 28 luglio 1926; Papa Paolo VI l’ha canonizzata il 3 ottobre 1976.
Proclamandola Santa nel 1976, Paolo VI ricordava ancora: «Nessuna parola di questa Santa è pervenuta a noi nelle sue sillabe testuali, nessuna eco della sua voce»; ma la sua opera è viva nella «nuova e tuttora fiorentissima famiglia religiosa da lei fondata». (Autore: Antonio Borrelli -
5 San Carlomanno Monaco (17 agosto)
707 – 17 agosto 754
Era il figlio maggiore del Maestro di palazzo di Neustria ed Austrasia, Carlo Martello, e di Rotrude de Tréves (695-maggiordomo (maestro di palazzo), senza assumere il titolo di re.
Fu costantemente in lotta contro il ducato d'Aquitania, gli Alemanni, i Bavari ed i Sassoni, che riuscì sempre a sconfiggere. Fu promotore, sotto l'influsso di San Bonifacio, che era sotto la sua protezione, tra il 742 ed il 744 di una politica di moralizzazione dei costumi dei chierici e di rispetto per i beni della Chiesa e delle sedi vescovili da parte dei laici. Dopo tante battaglie, nel 747, rinunciò al potere e si fece religioso; si incontrò con Papa Zaccaria, affinché sollecitasse il suo passaggio allo stato clericale e si ritirò nell'abbazia di Montecassino, lasciando in mano al fratello Pipino il Breve, tutti i suoi titoli ed i suoi possedimenti. Nel 751 cercò di intervenire, per impedire l'incoronazione del fratello a re dei Franchi, ma il papa riuscì a fermarlo in Provenza e gli impose di rientrare immediatamente a Montecassino. Nel 753, fu inviato in Francia per una missione di pace ma morì a Vienne, nel 754. Fu tumulato nell'abbazia di Montecassino. (Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria -
5 Santa Chiara di Montefalco (17 agosto)
Montefalco, Perugia, 1268 -
Nacque a Montefalco (PG) intorno all’anno 1268 e lì trascorse tutta al sua vita.
A sei anni entrò nell’eremo in cui viveva sua sorella Giovanna e dove nel 1291, dopo la morte di questa, Chiara venne eletta superiora, ufficio che conservò fino alla morte.
Nella sua vita si comportò sempre in modo esemplare. Raccomandava vivamente alle consorelle spirito di sacrificio e impegno personale nella realizzazione di una solida vita spirituale.
Godette di scienza infusa e difese vivamente la fede.
Si distinse per l’amore alla passione di Cristo, ed ebbe molto a cuore la devozione alla Croce. Negli ultimi anni affermava insistentemente di avere impressa nel suo cuore la Croce del Signore e, dopo la sua morte, le consorelle volendo provare il senso delle sue parole, avendole estratto il cuore, vi trovarono impressi i segni della Passione.
Il suo corpo riposa nella chiesa delle monache agostiniane di Montefalco.
Etimologia: Chiara = trasparente, illustre, dal latino
Martirologio Romano: A Montefalco in Umbria, Santa Chiara della Croce, vergine dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che resse il monastero di Santa Croce e fu ardente di amore per la passione di Cristo.
Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna.
Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilizi, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.
Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275.
La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande, che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura.
A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorché il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto in monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata.
Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino, che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di Sant'Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie.
Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.
Alla morte della sorella (22 novembre 1291), C. fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età.
Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo, inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati.
Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.
Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da C. che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come Santa.
Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della Ss.ma Trinità.
Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la S. Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire.
Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito.
Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre, di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano.
Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla Santa Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743.
In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo 1'8 dicembre 1881, però, la Beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.
Il 17 agosto si commemora la Santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde S. Clarae". (Autore: Nicolo' Del Re – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria -
7 San Donato (Donatello) da Ripacandida (17 agosto)
Ripacandida, Potenza, 1179 -
Nato a Ripacandida (Pz) nel 1179, ammesso al noviziato a Montevergine nel 1194.
Muore nel monastero Benedettino di Sant' Onofrio (SA) il 17 agosto 1198.Ripacandida lo ricorda il 17 agosto col nome di San Donatello per distinguerlo da San Donato Vescovo e Martire di Arezzo.
Nasce da gente umile e di semplici e purissimi costumi, salda e profonda la fede. All'età di 14 anni lasciò Ripacandida per ritirarsi nel chiostro Verginiano (Montevergine). Ma la sua ammissione fu rimandata al compimento del quindicesimo anno d'età.
Il giovinetto ritornò nel tempo stabilito e fu adibito a lavori materiali come la custodia degli animali e alla guardia delle vigne e dei campi. Ben presto rifulse per le virtù e, le genti che avevano la fortuna di trovarsi nelle vicinanze, sentivano e percepivano che un'anima elettissima si aggirava sulla terra. Nel fiore della giovinezza, a 19 anni, S. Donatello morì. Era il 1198.
I concittadini, desiderosi di recuperare le spoglie, partirono da Ripacandida e ottennero quanto desideravano nel 1202.
Il corteo partì dal monastero di Massadiruta, ma attraversando Auletta (Sa), si dovette fermare alle suppliche della popolazione devota e dovette lasciare, tali furono i segni manifesti del Santo, il suo braccio destro. Tale reliquia è conservata tuttora nella Chiesa parrocchiale di Auletta.
In data 25 febbraio 1758 la S. Congregazione dei Riti ne confermava il culto prestato ab immemorabili, con Ufficio proprio, per quel che si riferiva all'orazione e alle lezioni del II Notturno, per Auletta esteso poi a Ripacandida, Melfi e Rapolla. É festeggiato in dette località e a Montevergine il 17 agosto.
La più antica raffigurazione iconografica l'abbiamo in una campanella del 1501, che si conservava nel monastero di S. Onofrio. In essa il Santo è rappresentato avente nella sinistra un giglio, nella destra il breviario, ai piedi una volpe.
La rappresentazione più bella del Santo è data da una piccola oleografia su rame del sec. XVIII, che si conserva nell'abbazia di Montevergine. (Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria -
8 Sant'Elia il Giovane (17 agosto)
Vita di Sant’Elia lo Speleota
Sua Santità Bartolomeo I, il 23 marzo 2001 ha inaugurato a Melicuccà (RC) un Metochio presso la grotta in cui si santificò Elia lo Speleota. La Vita che qui pubblichiamo è fedele sintesi dell’edizione che V. SALETTA (La Vita di sant’Elia, Roma 1972), diede della traduzione fatta nel 1689 da G. CARNUCCIO (Cod. Crypt. B.b. XVII, ff. 15-
Nasce a Reggio Calabria (circa 860)
Desideriamo raccontarvi dal principio la sublime vita del nostro santo e celeste padre Elia, e le ascetiche lotte che sin dalla fanciullezza affrontò contro gli spiriti maligni, proponendo solo quelle cose che ci hanno raccontato chi l’ha frequentato prima di noi, o che abbiamo toccato con le nostre mani. Ebbe per patria una città chiamata Reggio, situata alla frontiera con l’Occidente; non fu povero, essendo sufficientemente dotati i suoi genitori, Pietro e Leontìa. Fu chiamato Elia per provvidenza divina; poiché nascendo come un sole in Occidente, risplendette con i raggi delle virtù sino all’Oriente [Elia da elios, sole].
Un giorno, essendo andato al tempio del Signore per partecipare ai Divini Misteri, gli si accosta un monaco; avendo conosciuto che la Grazia stava per ricoprire il beato, gli dice: “Deponi questo tuo vestito, figlio! Indossa la veste della salvezza e la tunica dell’incorruttibilità”. Il ragazzo andò via, dicendo: “Io, giovane, robusto, come posso spegnere gli infuocati dardi del piacere? Come posso vivere la vita angelica?” E supplicava Dio affinché gli mostrasse la sua volontà. Applicatosi come laboriosa ape ai prati delle divine Scritture, raccoglieva da esse il nettare delle virtù, riponendolo, come in un alveare, nel suo cuore.
Essendo dunque giunto al diciottesimo anno, avendo saputo che i suoi genitori volevano che egli si unisse in matrimonio, venne in gran malinconia, egli che era sempre allegro. Egli, infatti, amava l’incorrotta e angelica vita, a imitazione del profeta del quale portava il nome, niente stimando le ricchezze che possedeva. Si partì dalla casa di suo padre e avendo trovato un giovane, suo congiunto di sangue, passato quel piccolo spazio di mare, arrivarono in Sicilia.
Il padre del beato, per la perdita del figlio cominciò a strapparsi la barba, e bagnare di lacrime le guance dicendo: “Dolcissimo figlio, volato dai nostri occhi come un pulcino dal nido! Se sapessi cosa ti è accaduto!” Gli appare in sogno una rivelazione divina: “Perché piangi, Pietro, e sei mesto?” Egli: “Come non piangere, essendo uscito nascostamente da casa mio figlio per andar in terra straniera! Solo! Senza portarsi niente! Ed è monco: come si procura il necessario?” Ma quello gli dice: “Io andrò con lui liberandolo da ogni tribolazione e cibandolo in tempo di fame, perché l’ho scelto per servirmi in santità e giustizia”. Avendo udito, il padre si alza dal sonno e racconta l’apparizione alla moglie, e insieme diedero gloria a Dio. Era realmente il santo privo d’una mano: da bambino era cascato da un luogo alto; gli si ruppero le dita; essendo sopraggiunto un medico privo di scienza e d’esperienza, e avendogli legato con stecche la mano, e con filo sottile stretta per giorni otto, gli cascarono le dita, perciò era soprannominato ‘il monco’.
Eremita a Taormina (Messina)
Avendo ricercato un luogo quieto e inaccessibile, collocano se stessi nel bel tempio di Sant’Aussenzio, che sta sotto la strada dell’alto colle di San Nikon; privi di ogni corporale refrigerio, nutriti solamente della divina parola. Avendo dunque dimorato del tempo, il compagno del santo andò via, per essersi annoiato della via che conduce alla vita. Tornò indietro, come cane al proprio vomito; fu ucciso dagli Ismaeliti; morì di doppia morte. Il nostro benedetto padre Elia, rattristato molto per la perdita di quello che aveva abbandonato l’ascetica palestra, piangeva: “Guai a chi è solo, perché se cade nel sonno non c’è chi lo svegli!”. Essendo dunque sceso al mare, trovata una nave che andava in Italia, con prospero vento giunse a Roma Antica. Si stabilì in una casupola; macerava il suo corpo con fame, sete, freddo: si era fatto simile all’ombra della morte. La fame prevaleva assai grandemente da quelle parti, di modo che i poveri cadevano nei vicoli e nei portoni, e morivano[2].
A Roma Antica col monaco Ignazio
Dimorando nella casupola, entrò da lui un monaco, ed avendogli guardato la faccia pallida e disseccata, gli dice: “Di dove sei, fratello? Mi pare che da poco sei venuto dall’estero”. Egli lo riverì e disse: “Sono di Reggio Calabria”. Quel gran padre gli dice: “E chi ti porta un poco di pane?” Allora il beato Elia, mostrandogli alcuni pezzi di pane, disse: “Dio ha detto per bocca dell’Apostolo: – Non ti lascerò né ti abbandonerò. È lui che dà il pane ai cani”. Ammirato dunque quello gli dice: “Seguimi, figlio, di niente curandoti, perché Dio si cura di noi”. Ed ecco il giovane seguire il ghèron, e ubbidirgli in tutto. Un giorno, essendo stato mandato fuori città, incontrò certi pastori i quali, vedendo il forestiero, stabilirono d’ucciderlo; ma il beato stese le mani al cielo: “Tu hai rato Daniele dalla bocca dei leoni; salvami!” E Dio che esaudisce le preghiere dei suoi servi, indurì come sassi le mani di quegli uomini, e si vedeva l’agnello tra le fiere senza essere leso o danneggiato. Stando quegli assassini immobili, il venerando santo andò via glorificando Dio che l’aveva liberato.
Avendo lungo tempo dimorato con quel maestro, fu addestrato nella monastica palestra, per distruggere i pensieri che si sollevano contro la scienza di Dio. Come un combattente ben munito con le armi della virtù, è mandato dal maestro alla sua patria.
Torna a Reggio Calabria
Correva lì la fama di un santo il cui nome era Arsenio. Dalla sua angelica vita colpito, il giovane va a lui, il quale tagliatigli i capelli, lo vestì dell’abito monastico. Stava dunque a lui soggetto e ubbidiente, tagliando legna e portando acqua, legandosi con uno spago l’accetta al braccio sinistro e con la destra zappava, digiuno fino al sabato: diceva che bisogna domare la gioventù con fatica e fame, affinché i vizi e gli stimoli non si alzino come cani e buttino a terra la mente. In tal modo vivendo i padri vicino alla città di Reggio [rione Condera?], in un Metochio del Monastero di Santa Lucia [?], detto Mindino [mulino?], e servendo Dio in isichìa, un sacerdote della metropoli s’impossessò di quello che era la proprietà principale di Santa Lucia. Con molti doni avendo accecato lo Stratega che aveva il governo della regione, Niceta Votherita [?[3]], lo fece inclinare all’ingiustizia. Ma Arsenio ed Elia, avendo conosciuto il fatto, subito vanno dal giudice, raccontandogli il furto, dicendo non esser giusto dare ai cani le cose consacrate a Dio e alla martire [Lucia]: “Giudica con giusto giudizio; rendi il maltolto!” Allora l’ingiusto giudice, ribollendo d’ira, comanda di picchiare il beato. Il divino Arsenio, guardando il cielo, mandò fuori questo lamento: “Santa martire di Cristo, noi siamo ingiustamente battuti! Signore, giudica con giustizia!” Quella stessa notte, l’iniquo giudice poco mancò che gli crepasse il ventre. Subito va ai nostri venerabili padri, portando loro molta cera e un otre d’olio, dicendo di volere restituire le proprietà ingiustamente tolte. Gli rispondono: “Così dice il Signore: Provvedi alla tua casa perché morirai e non vivrai” Tornato infatti al Pretorio [?], dopo tre giorni il poveretto si trovò nel numero dei morti, pagando con l’immatura morte la giusta pena della sua iniquità.
Dunque attristatisi molto, i santi partirono da lì, ed abitarono nel tempio del santo martire Eustrazio, vicino ad Armo [frazione di RC]. I due aumentarono i digiuni, le preghiere, le Veglie e la lettura dei salmi. Il grande Arsenio digiunava per tutta la settimana, perché era anziano; ma il divino Elia – giovane d’età – restava digiuno per dieci giorni, sicché i suoi occhi si erano molto incavati. Durante la Santa Quaresima, faceva ogni giorno due o tremila metanie. Il grande Arsenio, che era sacerdote e celebrava i Divini Misteri, quando s’accostava il popolo all’altare per la comunione, la faccia d’alcuni vedeva luminosa, d’altri vedeva nera come una pignatta. Perciò esortava tutti: “Se qualcuno è ottenebrato per il ricordo del male ricevuto; se qualcuno è tenuto da rapina o avarizia, se qualcuno è infangato nella carnalità o in ogni altra impurità, non osi accostarsi a questo fuoco divino”. Parlando ancora, diceva che chi con fatiche e stenti si guadagna il pane, e supplisce alle mancanze dei bisognosi, e con pura coscienza partecipa ai Divini Misteri, è purificato dai peccati, e risplende la faccia della sua anima; chi si abbellisce con vesti bianche e rosse ma è pieno d’odio, rapine e peccati carnali, ha la faccia dell’anima nera e indegnamente prende il divino pane.
Ci fu un commerciante di Armo che comprava e vendeva schiavi; era costui ammonito che smettesse quel commercio, ma niente stimava le parole dei santi. In breve tempo morì. Allora sua moglie, portata una moneta, pregava il divino Arsenio: “Prendi, santo padre, e celebra le consuete Liturgie per mio marito”. Egli dapprima non acconsentì; avendo poi iniziato la Liturgia, al momento di fare menzione del nome del morto, l’Angelo del Signore, mettendogli la mano sulla bocca, gli impediva di fare il nome di quell’infelice. Dopo due o tre volte, capì il santo che quello era stato condannato. Avendo reso la moneta alla donna, disse: “Dalla a un altro che celebri per tuo marito le Liturgie, perché io non ho tempo”. Nello stesso paese era morto in quei giorni un mendicante; il gran padre celebrò gratuitamente per il povero; avendo compiuto le sante e divine Liturgie, come si usa per i defunti, gli appare il morto e gli dice: “Eterna la tua memoria, santo padre: per le tue preghiere sono stato liberato dalle pene”[4]. Il divino Arsenio usava dire che i peccati leggeri sono cancellati facilmente dal sacerdote o da un intercessore presso Iddio, ma che adultèri, furti, omicidi, e simili, difficilmente conseguono perdono.
A Patrasso
Ma poiché per divina visione fu manifestato ai padri dover venire per mare gli Ismaeliti, navigarono da Reggio sino a Patrasso, dove supplicarono il vescovo e il clero, chiedendo un luogo solitario nel quale dedicarsi alla preghiera. Avendo visto i padri, dissero: “Si trova una torre dirimpetto alla città, luogo quieto e. comodo per abitazione di monaci. Ma avendo voluto non pochi dimorarvi, nessuno poté opporsi e resistere allo spirito che vi risiede e che, facendo fantasmi e strepiti, fa che tutti si spaventino e fuggano”. Dice il divino Arsenio: “Mi sono fatto monaco, fratelli miei, essendo quindicenne, e mai ho visto alcun demonio, tranne i cattivi pensieri”. I santi dunque, vanno ed entrano nella torre. Ed ecco sopraggiunge il tentatore, il quale cominciò prima a fare strepiti, e altre cose spaventevoli; quali in nessun conto avendone tenuto i padri, perseverarono tutta la notte nella Vigilia. Anche nella seguente notte viene il crudele spirito; e la terza notte fuori della porta della torre; ma d’allora in poi scomparve e fu sicura quell’abitazione, dove dimorarono i nostri padri per otto anni, divenendo sempre più illustri per il loro ascendere alle divine contemplazioni. Gli abitanti di Patrasso continuamente andavano a quelli, per interrogarli, ed esser da loro aiutati.
Una volta uno dei nobili della città, accostatosi al divino Arsenio, gli disse: “Se mi stimi essere fedele al Signore, vieni in casa mia”. Subito il ghèron disse ad Elia: “Seguimi, figlio”. Egli che in tutte le cose era ubbidiente, seguì prontamente il ghèron. Sedutisi già a tavola con chi li aveva invitati, e sua moglie, mangiavano con rendimento di grazie. Ma l’immonda e scostumata moglie, guardando la faccia del nostro padre Elia splendida e luminosa, fu ferita nel cuore. Sedendogli vicino, la disonesta e sfacciata toccava il santo. Ritornati nel monastero i padri, fu mandato a quella meschina un angelo crudele, il quale sbattendola a terra, la faceva tutta tremare e sbattere i denti. Compreso che per aver voluto turbare un uomo santo, giustamente era incorsa in quel travaglio, chiamava: “Santo padre, il mio spirito viene meno!”. Allora i servi mossero a compassione il beato Arsenio, ed egli, chiamato il casto Elia e molto avendolo esortato, gli dice: “Va’, figlio, alla casa di quello che oggi c’invitò, perché sua moglie chiama il tuo nome”. Uscì fuor di sé il santo; ma per ubbidienza andò ed entrato nella casa, la donna dice: “Perdona, imitatore di Cristo!” Il santo le dice: “Se da ora innanzi vivrai castamente, Dio laverà il tuo peccato, e sarai da questo flagello liberata”. E subito alzatasi, visse castamente. Ma egli tornato al divino Arsenio niente disse, e ancor più perseverava col vegliare notti intere; tutta la notte scriveva e pregava; finito il Mattutino si stendeva per terra e diceva al sonno: “Vieni, servo cattivo”.
Ora il divino Arsenio era d’età avanzata. Il vescovo del luogo gli dice: “Venerando padre, con desiderio grande ho desiderato fare un bagno con te”. Ed entrati nel bagno, e spogliatisi dei vestiti, dice il vescovo al santo: “Cala tu, padre, per primo e benedici l’acqua”. Il santo, fatto il segno della croce, si tuffò nell’acqua. Ed ecco diventa profumato tutto quel luogo di profumo divino, che superava ogni fragranza dell’arte profumiera. Il vescovo e il clero gridavano: “Kirie eleison!”. Nessuno si lavò più in quel bagno ma, come si ha per tradizione, restò chiuso per molti anni, di modo che quelli che s’accostavano alla porta, odoravano quel profumo. Si sparse la fama del miracolo per tutte le province che erano intorno.
Decisero allora di tornare nella loro patria, e il vescovo cominciò a distogliere i beati padri da un tal proposito. Convocò il clero e dice: “I santi padri vanno via!” Quelli risposero: “Non possiamo trovare altri santi! Siano proibiti di partire”. Essendo dunque giunta la festa della Santa Teofania – fece molta neve, quell’anno – e celebrata la Divina Liturgia, si radunò col vescovo quasi tutto il popolo, e uscirono dalla città per fare impeto ai santi padri, portando lo skevofilax della cattedrale con le mani legate dietro la schiena, fingendo di batterlo. Entrati dunque che furono nel kellìon, il vescovo cominciò a sgridare i padri: “E voi siete monaci? E voi temete Dio? avendo fatto contro di noi un tale sacrilegio? Come è vera la parola divina che dice: Molti entreranno a noi travestiti da pecore, e di dentro sono lupi rapaci!” Il divino Arsenio rispose: “Perdonami, signore, ma che tentazione è questa?” Allora il vescovo fece venire il finto accusatore del santo e gli dice: “Confessa che avete rubato i sacri vasi della chiesa!” E quello: “Ingannato da Elia monaco, li abbiamo rubati, venduti, e ci siamo divisi il ricavato”. Rispose il divino Arsenio piangendo: “Credimi, signore, ho preso con me Elia da ragazzo e non ha mai toccato un soldo”. Dice il vescovo: “Tu, santo padre, sei semplice e non ti accorgi degli astuti”. Ma il beato Elia, conoscendo che quella tentazione era per sua prova, stava in silenzio; allora il vescovo comanda che lo mettessero in prigione. Cominciò il divino Arsenio a piangere un fiume di lacrime, e il vescovo cominciò a consolarlo e placarlo; e subito mandò a cavare il santo dalla prigione. Il vescovo, avendo chiesto perdono con tutto l’animo, lasciò che se ne andassero in pace. Così, avendo felicemente navigato, vennero dalle parti di Reggio e di nuovo abitarono nel tempio di Sant’Eustrazio.
Di nuovo a Reggio Calabria
In quei giorni si trovava dalle parti di Reggio Elia [di Enna] col suo discepolo Daniele, in una grotta vicino al tempio di San Donato [?]: faceva molti prodigi e prediceva che Reggio sarebbe stata invasa. Il divino Arsenio gli mandò a dire: “Dio ha in odio le mie opere, santo padre, e perciò niente prevedo delle cose future”. Allora Elia [di Enna], gli disse: “Padre Arsenio, vuoi fare l’indovino? Che cosa cerchi più grande della grazia che è in te? Che vedi durante la Divina Liturgia?” Il divino Elia aveva testimoniato che Arsenio celebrava stando in mezzo a un fuoco spirituale, e vedeva la Grazia del Santo Spirito come fuoco che copriva l’altare, perciò non smetteva di piangere dall’Ingresso della Divina Liturgia sino alla fine. Quando il divino Elia [di Enna] stava per essere convocato dall’imperatore [Leone VI, 902 circa] disse a tutti: “Figli miei, non vi lascerò orfani; come siete stati ubbidienti a me, così sottomettetevi ad Elia [Speleota]”. E al suo discepolo Daniele disse: “Dopo la mia morte, portate il discepolo di Arsenio, perché guidi il mio gregge”[5]. Dunque il divino Arsenio, essendosi ammalato, avvisa Elia, il quale era stato mandato al Kastro di Pietracappa [presso RC]. Velocemente arriva e si getta in ginocchio accanto al letto dove il ghèron giaceva, e gli baciava piangendo i piedi, dicendo: “Santo padre, come ci divideremo?” Disse il ghèron al beato Elia: “Il tuo nome sta scritto nel libro della vita; ma io, che all’età d’anni quindici ho preso sulle spalle il giogo di Cristo, non so se sono stato a lui gradito una sola ora in tutta la mia vita”. Dopo aver pregato e abbracciato tutti, rese la sua luminosa anima nelle mani di Dio. Morì il divino Arsenio vecchio e pieno di giorni: era deposto il suo corpo nel tempio di Sant’Eustrazio. Ma dopo molti anni – raccontava Elia – essendo venuti gli Agareni, e avendo visto il sepolcro, stimarono esservi nascosto un tesoro; avendo scavato e trovato sano e intero il corpo del santo, vestito dell’abito sacerdotale, cominciarono a farsi beffe: “Questi sono quelli che ingannano gli infedeli, dicendo che Dio ha un figlio; venite, bruciamolo”. Avendo perciò portato frasche e canne, uniti soffiarono senza effetto, finché se n’andarono confusi. Dopo essersi partiti gli Agareni, Elia uscì dal Kastro, e depose dentro la chiesa il corpo[6].
Nella Regione delle Saline [“piana” di Gioia Tauro, RC]
Dopo questo, mentre attendeva alla preghiera in isichìa, lo mandò a chiamare Daniele. Viaggiando a piedi come era suo costume, verso sera arriva al Monastero delle Saline[7], afflitto dalla sete e dal caldo: era estate. Ma il divino Daniele gli chiude la porta del monastero; tramontato il sole, gli manda un poco di pane e un boccale d’acqua. Dopo che il divino Daniele l’ebbe messo alla prova, aprì e gli disse: “Ora so che sei un vero monaco, e imitatore del grande Arsenio!” E solo dopo aver discorso tra loro, il divino Daniele esortò Elia perché si riposasse un poco. Elia restò in preghiera, ripetendo i salmi. Ed ecco che il prossonario batte il simandro per il Mattutino. Durante l’Ufficiatura, essendo iniziata la Lettura, si stancò Daniele, ed essendo preso dal sonno, fece per uscire dalla chiesa. Allora Elia, afferrandolo per il mantello, sorridendo gli dice: “Fratello, resta con me a combattere sino al mattino, poiché dei violenti è il regno dei cieli”.
Dopo questo, avendo vissuto insieme un poco, gli viene desiderio al nostro padre Elia di abitare solitario, in isichìa. Subito il divino Cosma, assieme col suo discepolo Vitale, lo porta nella spelonca dove abitava (quella dove ora c’è la cantina). Esultò Elia per la comodità del luogo, che a quel tempo era deserto e inaccessibile. Ma il divino Cosma vide in sogno tutti i dintorni pieni di monaci, e dice al suo discepolo: “Alzati, fratello, andiamoci da qua, perché piace a Dio che qui si faccia un cenobio”, perciò parti e andò lontano.
Stava Elia nella spelonca, e avendo visto il luogo atto a ricevere più fratelli, stabilì d’accettare tutti coloro che s’accostavano alla vita monastica, attirandoli come la calamita il ferro. Egli era dolce nel parlare, paziente nelle tentazioni, allegro nelle tribolazioni. Insegnava a rinunciare al tempo presente, confessare gli errori fatti consapevolmente o inconsapevolmente, non avere propria volontà ma osservare ubbidienza all’igumeno, frenare la lingua e lo stomaco, faticare con le proprie mani e cibarsi delle proprie fatiche, distribuire ai poveri.
L’interno della grotta di Sant’Elia
Moltiplicandosi dunque i fratelli ed essendo stretti in quel buco, piacque a Dio che si manifestasse la divina e famosa grotta in questo modo: un gran numero di pipistrelli usciva per una fenditura, e di nuovo vi entrava; capirono perciò i padri che il monte era cavo. Avendo dunque accesi lumi, entrarono per la fenditura e vedono una spaziosa spelonca. Elia esultò nello spirito ma si attristava molto, perché non era possibile che per la fenditura entrasse raggio di sole ad illuminarla. Dio gli manda allora un uomo chiamato Cosma, in tutto pratico ed esperto, il quale avendo accuratamente osservato il colle, pagò molti operai perché scavassero e così aprì l’ingresso della spelonca facendo risplendere all’interno la luce. Lo stesso Cosma, lì rinunciò al mondo e, dopo aver fatto molte opere al Monastero, come la salina e il mulino, si riposò in pace. Il nostro benedetto padre Elia, dentro la spelonca avendo fabbricato un altare, vi fece un sacro tempio ai santi corifei degli Apostoli. Infuriatosi perciò il diavolo, si mette contro di lui; e gli appare con strepiti e fantasmi e fortissimi sibili. Uno dei discepoli del santo sentì dire al diavolo che non poteva sopportare che lì dimorasse lì il “monco” Elia.
Mentre Elia un giorno era in quella spelonca e, secondo la sua abitudine, scriveva, certi di Seminara [RC] venivano a lui, quando si fa loro incontro un tale che somigliava ad un etiope da loro conosciuto. Gli dicono: “Da dove vieni, Fotis, e dove vai?” Quello disse: “È venuto Elia il monco, e ci ha mandati via dalla nostra casa; ora andiamo a Mesobiano [Mesiano?]”. E avendo così detto, si sollevò in aria e se n’andava zoppicando e maledicendo il santo (c’è veramente una grande e tremenda spelonca, detta “Santa Cristina” [presso Oppido, RC]). Queste cose il santo avendo udito, rese grazie a Dio, esercitandosi in maggiori fatiche, salmeggiando a Vespro e Mattutino. Teneva i piedi immobili come se fossero radicati in terra, senza appoggiarsi al bastone o al cancello, senza nemmeno grattarsi per pidocchi o pulci o zanzare. Nella Divina Liturgia andava in estasi e comunicava alla celeste perla con ogni timore, come Isaia per mano del serafino.
Miracoli
Dio lo perfezionava intellettualmente e lo glorificava con divini segni. Una volta, vicino alla pietra su cui il santo scriveva, c’era una botte di vino per la celebrazione della Liturgia. Scese tanta pioggia che la botte si riempì. Il divino Luca il Calvo dice al santo: “Come celebreremo la Liturgia? La botte si è riempita d’acqua”. Il santo sorride, fece il segno della croce e dice: “Gustate e vedete che Cristo è Signore”. Subito l’acqua s’era fatta vino buono.
Un’orsa, uscendo dal monte di fronte al monastero, rubava i favi delle api; i monaci spaventati gridarono al gran padre, ma il taumaturgo cominciò con austera voce a rimproverarla così: “Non ti vergogni? Non temi Dio, tu che rubi ai padri? Va’e non venire più”. E la belva andò via. Elia diceva: “Figli miei, se noi osservassimo i precetti di Dio, tutte le cose sarebbero a noi soggette, come a Adamo prima di trasgredire al divino precetto. Ora le creature si sono ribellate contro di noi: non sono loro a temerci ma noi ad avere paura di loro”.
Il suddetto Luca mi raccontò: “Una volta il venerabile padre mi mandò a Sant’Agata [Oppido, RC] insieme al monaco Vitale. Mentre tornavo al monastero, un’orsa mi ferì, lasciandomi mezzo morto. Vitale mi caricò agonizzante sul suo giumento, e mi portò al monastero. Il padre avendomi segnato col segno della croce, e fatto preghiere, in pochi giorni fui sano”.
Una volta Saba, un discepolo del Santo, disubbidientemente uscito dal monastero andò a Mileto [?]. Impossessatosi di lui il cattivo spirito, lo portano legato al santo. Il compassionevole medico in pochi giorni lo guarì.
Gregorio di Bruzzano [di RC], avendogli dispiaciuto il regime del monastero, se ne voleva andare in altro luogo. Allora gli accade nella lingua un dolore insopportabile. Dopo molti giorni vede in sogno un angelo che gli dà uno schiaffo, dicendo: “Sottomettiti al padre, e unisciti ai fratelli”. Subito fu sanato.
Un’altra volta, stando accanto al monastero un albero, comandò Elia al suddetto Luca di tagliarlo per allargare l’ingresso. Durante il taglio, un ramo afferra la veste del monaco e quello cade giù, vicino alla sorgente. I monaci gridavano ma il nostro padre pregava Dio con le mani tese al cielo. E mentre i monaci calavano giù per prendere il cadavere, andò incontro loro Luca, dicendo allegro: “Non vi spaventate, fratelli; niente di male ho patito”.
Quando il patrizio Vitalone si ribellò all’imperatore [922?], i discepoli dicono a Elia: “Vedi, padre, che costruzioni e che fortezze; come potrà l’imperatore sottometterlo?” Ma egli dice loro: “Non passerà questo anno e saranno abbattuti questi edifici, sì che diventino luogo puzzolente della città e lo sciagurato morirà di pessima morte”. Non si era ancora compiuto l’anno, e proprio i suoi domestici scannarono Vitalone. Il santo conobbe il giorno e l’ora dell’omicidio, benché il luogo fosse lontano dal monastero 42 km circa, e disse: “In questo momento, figli miei, è stato ucciso il ribelle Vitalone”.
L’acqua prodigiosa
L’igumeno Lorenzo mi raccontò: “Una volta Elia mi chiamò e, chiuso il libro che leggeva, mi dice: – Lorenzo, se tu vedessi entrare qui uomini e donne, resteresti nel monastero? E io risposi: – Non sia mai. E lui mi dice: – Vedrai entrare tanta gente come per la festa di sant’Elia [d’Enna]. Meravigliato, gli dico: – Per quale motivo? Ed egli mi dice: – L’acqua che gocciola da quella pietra della spelonca, ha il potere di guarire; ma non voglio che ora faccia miracoli; pregate anche voi con me, perché non faccia miracoli per ora. Tu sarai il mio successore nel governo dei fratelli”.
Ancora miracoli
Un giovane era oppresso dal cattivo spirito: Elia, levate le mani al cielo, lo mandò via guarito.
Vicino Mesobiano c’è un luogo detto Asphaladeo [?]; vi abitava Epifanio, un sacerdote che scriveva incantesimi. Il giusto giudizio di Dio lo consegna a uno spirito. Egli, temendo d’essere deposto dal grado sacerdotale, va di nascosto e racconta al beato. Elia tocca il suo capo e gli dice: “Promettimi che non sarai curioso di queste cattive opere”. E vide un corvo uscirgli dalla bocca e scomparire, e così avendo mantenuto il patto di non fare più incantesimi, fu liberato dal cattivo spirito.
Una volta gli fu portato un fanciullo dal proprio padre, chiamato Giovanni. Aveva la bocca e gli occhi deformi, di continuo saltava e tremava. Elia prese nelle sue braccia il fanciullo, e lo segnò col segno della croce, dicendo: “Ecco, non ha alcun male”. Il volto era tornato allo stato naturale ed era cessato il tremore del corpo.
Una volta Luca mi raccontò che l’illustre Gaudioso era attanagliato dal cattivo spirito. Disse al padre: “Sono molestato dal tentatore; e invano mi sono affaticato non avendo ricevuto giovamento. Voglio dunque andare in Palermo dai medici”. Il santo gli disse: “Sopporta, figlio, il castigo mandato da Dio”. Ma quello s’imbarcò in una nave che andava a Palermo. Navigando, verso Milazzo si addormentò. Di poi svegliatosi, cominciò a gridare: “Fatemi scendere a terra, fatemi scendere!” I marinai gli dicono: “Perché vuoi scendere?” Ed egli dice: “È venuto il gran medico Elia, mi ha aperto la bocca e mi ha cavato dal ventre come un maiale, ed ecco sono guarito”.
Una volta, venne al monastero Pietro, un amico dei monaci. Senza sapere lasciò il cavallo nel cimitero dei monaci. Quella stessa notte gli apparve un giovane, tutto luminoso, che minacciava: “Hai fatto la nostra casa pascolo del tuo cavallo!” Alzatosi, vide il cavallo a terra mezzo morto, e così gonfio che stava per scoppiare. Udite queste cose, il santo mi disse: “Va’e portami un boccale dell’acqua che gocciola dalla pietra. Apri la bocca del cavallo ed infondi l’acqua”. Fatto questo, il cavallo s’alzò da terra.
Il monaco Giovanni di Gerusalemme, a quel tempo archontaris, mi raccontò: “Ero stato mandato a Reggio per necessità del monastero, e molto distratto qui e lì tutto il giorno, pensavo: È cosi che mi salverò? Essendomi addormentato, vedo il santo con la testa tagliata, il sangue scorreva per tre parti, e la testa mi parlò: – Non vedi che per voi ho buttato sangue? Obbedite ai vostri igumeni e siate loro soggetti, perché essi vegliano per le anime vostre”.
Un altro, tormentato dal demonio carnale, manifestò la tentazione al padre, il quale gli dice: “Domina il ventre, perché così si smorzano i dardi del nemico. In trenta anni di combattimento delle tentazioni, non ricordo d’essermi riempito lo stomaco di cibo”. La causa della soprannaturale castità del santo era perché affliggeva il corpo con freddo e nudità, coperto solo d’uno straccio d’inverno e d’estate, e di un mantello di pelle. Una volta gli abbiamo chiesto: “Padre, non si agghiaccia il tuo corpo per il freddo dell’inverno né si brucia con l’ardore del sole?” Rispose: “Figli miei, da tre anni il mio corpo non sente più né freddo né caldo”.
Egli aveva adottato nel battesimo un figlio, chiamato Elia, che si ammalò di cancro. Disse il santo, che non sarebbe guarito prima di farsi monaco. Guarì anche il fratello di questo, Giovanni, sacerdote.
Quando scoppiò l’incendio di Caveri [?], che divorò monti e boschi, un sacerdote del posto, a nome Lucio, salito sul tetto chiamò con grida il santo. Allora il fuoco, divisosi in due parti, consumò quanto si trovava attorno alla casa, senza toccare quello con le sue cose.
Il monaco Giovanni, figlio di Panteleimon, mi raccontò: “Per un morbo avevo tutte le membra inaridite; avendomi preso mio padre, mi portò a spalle e pregava dicendo: – Santo padre, imponi le mani sopra mio figlio. Il santo dice a mio padre: – Prendi tuo figlio e portalo al sacerdote perché preghi per lui. Subito mi sentii alleggerito dai dolori “. Anche sua madre, per un anno oppressa da febbre terzana, il santo la segnò con la croce, e nessuna infermità si accostò a lei per l’avvenire.
Elia diceva che vero miracolo è sopportare ingiurie e disprezzi, tenersi lontano dai piaceri carnali che fanno guerra all’anima, macerare il corpo con fame, sete, freddo e nudità, perché diventi malleabile e si sottometta allo spirito. Diceva di troncare la propria volontà, perché chi mette insieme rinuncia di sé e volontà, costui è un adultero.
Il parlare del padre era potente ed efficace. Quando comandava ai discepoli di tagliare alberi grandi, o rotolare macigni dalla cima del monte che sta sopra il monastero, egli entrando nella sua cella, supplicava Iddio. Si vedevano allora alberi e macigni scivolare come se fossero intelligenti, di modo che non sfioravano né celle, né alberi da frutta. Usciva il santo sorridendo al solito suo, e diceva: “Perché vi meravigliate? Se avrete fede come un granello di senape, direte a questo monte: passa da qui, ed egli passerà, e niente sarà a voi impossibile”.
Quando venivano gli Agareni, Elia si nascondeva nei monti intorno al monastero, vestito di una tunica di pelle; quando poi quelli partivano, usciva solo dopo essere stato cercato a lungo. In segreto disse che per quaranta giorni aveva preso solo un poco di pane e niente acqua. Anche nelle altre incursioni, si ritirava nel Kastro con i monaci, insegnando a pentirsi dei propri peccati. Una volta gli Arabi assaltarono il Monastero; all’improvviso s’aprì davanti a loro una voragine oscura e senza fondo: impauriti, tornarono indietro.
Entrando io una volta con un altro monaco, mentre il santo era in preghiera il suo aspetto era divenuto diverso, trasfigurato e divinamente luminoso[9]. Poi ci spiegò con molta circospezione: “Figli miei, desideravo sapere come l’anima, uscendo dal corpo, superi la carne, le potestà e i principati, i nemici dell’aria. Mentre così meditavo, in estasi vedo me stesso salire, e mi trovai al di sopra d’ogni principio e potere cattivo, senza impedimento e senza danno, e mi ritrovai dove prima ero seduto. Questa tremenda visione mi trova continuamente, quando pratico l’isichia”.
Il venerando padre, incurvato per la vecchiaia, mangiava una volta sola al giorno, assai poco. Intorno al mangiare carne e all’ingresso di donne nel monastero, era inflessibile. Una volta venne una monaca da lontano ed entrò nella grotta. Il santo, alza gli occhi e dice: “Chi sei? e che vuoi tu qui, femmina per mezzo della quale entrò nel mondo la morte?” Quella se ne andò umiliata e confusa.
Un suo discepolo mangiò carne di nascosto. S’alza il santo e trova alcuni pezzi di carne avanzati; il santo chiama i cani e getta loro la carne, e quelli non la toccarono. Cominciò a rimproverare: “Vedi come non la toccano i cani? E tu, fratello!… Quelli che mangiano carne sono simili alle bestie feroci; quelli che vivono d’erbe e legumi somigliano agli uccelli del cielo”.
Il padre da molti anni teneva sotto il letto, nella grotta in cui abitava, la bara, e non smetteva di bagnarla con calde lacrime, sperando nella risurrezione. Il padre aveva il dono delle lacrime, e non smetteva mai di piangere. Nelle feste vegliava per tutta la notte, e la sua faccia era illuminata dalla Grazia divina; per tutto il giorno mandava raggi.
Una notte un macigno si staccò dalla cima, rotolò poco a poco e si posò davanti alla porta del padre: chiaramente era segno che egli stava per separarsi da noi. Egli raccontò d’aver visto due persone, vestite di bianco, che lo accompagnarono dall’imperatore, lui che mai aveva visto un re. Arrivati davanti a una colonna, la cui altezza arrivava al cielo, facilmente e senza alcuna fatica vi salirono. Egli allora vede i gradini, sale, e si presenta al re. La colonna alta sin al cielo è la scala di Giacobbe; i gradini sono le virtù.
La morte d’Elia (960?)
Era già vecchio, e diceva: “Figli miei, è vicino il tempo della mia partenza. Voi restate sulla buona strada della vita monastica, perché non è la partenza ciò che incorona vittoriosi, ma il traguardo. Non profanate la santità del corpo con crapule e ubriachezza: stretta e angusta è la strada che conduce alla vita; l’anima che vive mollemente, è come morta. La vostra professione monastica, fatta alla presenza di Dio e degli angeli, portatela a compimento per mezzo di una sincera ubbidienza. Siate diligenti e ferventi di spirito nelle preghiere e salmodie notturne e nei servizi del cenobio, senza pigrizia o mormorazione. Chi serve per Cristo è più grande di chi siede a tavola. Somma e corona di tutto è l’umiltà: chi si umilia sarà esaltato. Sopra tutto ci sia la carità, miracolo della perfezione, perché la carità non opera male al prossimo. Chi conserva il ricordo del male ricevuto, vive nelle tenebre perché il ricordo delle offese conduce alla morte. Chi impera e domina sulla terra, e vive nella lussuria, al momento della morte inutilmente piangerà. Chi con digiuni e veglie avrà fatto morire le passioni, alla sua uscita l’anima risplenderà più delle stelle”.
Una volta il monaco Giovanni vide in sogno molti uomini vestiti di bianco, che cavalcavano cavalli bianchi, e in mezzo di loro una donna vestita di porpora, bellissima. Con cembali, chitarre e altri strumenti suonavano e battevano le mani, come a un matrimonio; aprirono la porta ed entrarono. Lui cercava d’impedire loro d’entrare, ma essi lo spinsero indietro: “Non opporti, o monaco: ecco le nozze del Re!” Svegliatosi il monaco, dice al santo: “Padre, queste cose ho visto in sogno”. Gli risponde il padre: “Tra pochi giorni quelli verranno a prendere la mia anima”.
Nell’annua ricorrenza di sant’Elia [d’Enna, 17 agosto], anche il nostro Elia salì [da Melicuccà], per abbracciare le sue preziose reliquie e, nello stesso tempo, licenziarsi spiritualmente dal suo sincero amico, a lui uguale di nome e di vita. Sentendo un poco di mal di stomaco, tornò al proprio monastero, sopportando con pazienza la malattia, senza alcun lamento. Anche se molto debole per l’emorragia, si nutriva solo con un poco d’orzo. Dopo venticinque giorni, pienamente lucido di mente, gioioso, con rendimenti di grazie sulle labbra, consegnò l’anima nelle mani di Dio.
Subito il suo volto diventò splendente, e per tutta la notte mandava raggi. Era alto, gli occhi ridenti, i denti bianchi, la barba grande e divisa in due, la faccia rossa e allegra, con tutti sempre ridente con divina grazia. Fu la sua morte l’11 settembre, essendo presente il vescovo Vitale [di Sant’Agata (Oppido) o di Tauriana?] con molti sacerdoti e laici. Dopo aver vegliato tutta la notte, deposero il suo venerabile corpo nel sepolcro nuovo, che egli stesso aveva scavato nella spelonca. Il tempo in cui visse corporalmente è questo: era ragazzo quando quel gran monaco, di cui si è detto, gli annunciò che avrebbe abbandonato il mondo; alla tonsura aveva 19 anni; si esercitò nella monastica palestra per 77 anni; sulla terra visse 96 anni.
Dopo non molto tempo, Elia apparve a un discepolo, risplendente di gloria divina. Quello chiese: “Dove sei, padre?” Rispose e disse: “Figlio, il re mi ha fatto entrare nel coro degli asceti”.
Il monaco Antonio raccontò: “Quando il santo morì, l’ho visto seduto sulla porta; teneva in mano una croce d’argento e tutti andavano a baciarla; guardai di nuovo indietro, ed ecco non era: ma sento una melodia soave e stupenda fuori la porta. Tento di uscire per seguire il canto, ma la porta era chiusa. Allora chiedo chi ha chiuso la porta, e mi rispondono: – La porta del monastero l’ha chiusa il padre. Mi sforzavo di uscire, e non potendo, mi svegliai”.
Le reliquie
Molti miracoli fece Dio per mezzo delle reliquie del nostro padre Elia[10]. Il sacerdote Pietro si prese il bastone d’Elia e lo portò al suo paese. Avendolo lavato con acqua, asperse con questa Niceta (il figlio d’Erotico), paralitico, e fu liberato dall’infermità che pativa. Avendo asperso con la detta acqua sua suocera, conseguì – come altri – la salute.
Il monaco Giacomo aveva una nipote pazza; non potendo farla entrare per baciare la tomba del santo, la fece venire travestita da uomo. Gli appare il santo che, sorridendo, dice: “Come un ladro hai rubato la guarigione! Apri la tua bocca”, ed ella sputò un serpentello. Subito svegliatasi, capì di essere guarita.
Teodoro di Melicuccà, al battesimo figlioccio del santo, aveva la moglie indemoniata: con timore e fede bacia la tomba e subito uscì da quella l’immondo spirito.
Giorgio, del paese dei Gaiani, aveva un figlio indemoniato. Avendolo preso lo portò e l’addormentò accanto alla tomba del miracoloso padre, e subito fu liberato dall’immondo spirito.
Un sacerdote della regione dei Mesi [Villa Mesa di RC], fu dato al demonio: si torceva tutto, e si mutava di faccia, e schiumava dalla bocca. Temendo d’essere deposto, si rifugia dal santo: lava con lacrime la tomba, la bacia, passa una notte intera in preghiera, e la mattina esce liberato dal demonio. Anche suo fratello fu liberato dal demonio.
Una bambina di Bruzzano, languida di mani e di piedi, fu portata dalla madre; il monaco Elia la depose accanto alla tomba di sant’Elia. Dopo poco la fanciulla sedeva a giocare.
Il monaco Giorgio – che un tempo abitava nelle grotte di Maratona [presso Castellace, RC?], aveva mal di denti; supplicò il monaco Luca che gli toccasse i denti con il coltellino del santo. Essendosi coricato, vede il padre, risplendente di luce, che l’incensava e gli levava il dolore dei denti. Così mi raccontò il monaco, rendendo grazie a Dio e al santo.
Cristoforo di Sicrò, era andato una volta per comprare grano, e per via fu percosso dal demonio meridiano: strabuzzava gli occhi, tremava tutto, restò quasi venti giorni senza mangiare né dormire. Fu portato con una barella e deposto presso la tomba del santo, e fu unto con olio della lampada. Essendosi assopito, vede il santo, risplendente di luce, che gli apre lo stomaco e ne tira fuori come un uovo d’oca, dicendo: “D’ora sarai sano e libero dal cattivo spirito”. Al mattino andò via guarito, lasciando la barella come prova della guarigione.
Un bellissimo ragazzo venne a morire. Suo padre, il sacerdote Pietro, si strappava le unghie, la barba, i capelli. Viene alla tomba del santo, la bagna con calde lacrime, la bacia, grida: “Santo padre, rendimi mio figlio sano e vivo!”. Dopo pianti e sospiri, si addormenta un poco, ed ecco, “mi parve – raccontò – che scendevo assieme a mio figlio e dietro di me un suono come d’uragano. Vedo il santo, risplendente di gloria. Gli dico: – Che suono tremendo è questo? E lui: – Non temere, Pietro, è una burrasca che passa; dille tre volte: – Dice il peccatore Elia, non ho paura di te. Così ho fatto, e quel tremendo suono che mi seguiva, subito andò via. Mi sono svegliato, e ho detto: “Lo strepito del lutto, per la pronta visita del santo, passò da noi. Infatti, il fanciullo che giaceva privo di spirito, aprì gli occhi, e chiese da bere”.
Due monache, una fu unta da me con l’olio, l’altra toccò di nascosto la tomba, e subito guarirono.
L’illustre Giovanni, figlio di Fagro [?], paralitico d’un braccio, unto con l’olio della lampada: guarì subito; perciò festeggia l’annua memoria del Santo raccontandolo a tutti.
Una ragazza di Bruzzano, figlia di Cordì, era cieca: la madre e lo zio, conducendola per mano la portano al monastero e la coricarono accanto al sepolcro. Le comparve il santo che gli pulì gli occhi con una spugna e subito ricuperò la vista.
Stefano, un giovane ch’era servo di Nicola di Plaka, nel territorio di Sivelliano impazzì. Stava nudo su una pietra accanto al lago; se vedeva avvicinarsi qualcuno, si buttava nell’acqua, nascondendosi come un ranocchio. Avendolo preso e legato con corde, lo caricarono sopra un giumento, e lo portarono a sua madre, Questa lo portò e di nascosto lo pose accanto al sepolcro del santo. Lo unsero con l’olio della lampada, “e io – raccontò – vedo una luce splendente più dello splendore del sole e un monaco, alto, con i capelli bianchi, una grande barba, risplendente di luce incomparabile. Mi toccò nel fianco con il piede e mi dice: – Non temere! Diventa servo di Cristo che ti ha guarito”. Non si parti più dal monastero; rinunciò al mondo, e preso il soave giogo, servì a Cristo Signore per quanto poteva.
Glauco, di Moro [Fiumara di Muro, RC?], idropico, dopo aver passato due giorni accanto al sepolcro del santo, lo vede in sogno, e gli disse: “Apri la bocca”, e gli estrasse un serpente attorcigliato. La mattina si alzò, non avendo in sé alcun male.
Il servo di Mailo [?] di Sicrò, era indemoniato e schiumava dalla bocca. Portato al monastero, mentre l’igumeno Lorenzo celebrava la Liturgia, nove volte lo spirito travagliò il ragazzo. I monaci portarono allora la spugna, con la quale – alla morte – avevano lavato il corpo del santo, e ne diedero a bere a quello, così che subito il cattivo spirito andò via.
Leontìa, figlia di Licasto, cugino del santo che abitava dalle parti di Plaka, essendo stata per un anno immobile come un sasso, una notte cominciò a litigare con il santo: “Tu liberi da ogni infermità gli estranei e i forestieri, e me, tua parente?” Il santo, per mezzo di sua madre le mandò un bicchiere di vino; si svegliò e non aveva più la paralisi. In compagnia d’Eleuteria, una nobildonna, andò allora al monastero, e non potendo entrare nella spelonca, si coricò fuori. Mentre dormiva gli apparve una donna vestita di bianco, per rimproverarla: “Questa nobile ma sordida donna ha imbrattato la santa casa”.
Il monaco Saba, spinto dalla fede, si prese gli zoccoli del santo e li portava sempre con sé. Una volta, mandato in montagna, a Pileo [?] per fare pece, accadde che a uno dei pastori che là si trovavano entrasse in corpo il cattivo spirito. Il monaco Saba, avendo visto, prese uno zoccolo e glielo pose sul petto. Cominciò allora il demonio: “Toglietemi da sopra lo zoccolo d’Elia, il monco, perché mi rompe le ossa!”. Quello poi essendosi assopito, la mattina si alzò sano.
Uno zoccolo il monaco Saba se lo portò nel Monastero dei Siracusani [?]; l’altra, quello destro, il monaco Ilarione l’ha portato a noialtri del Monastero di Malvito [?].
Il monaco Konon, mentre tornava al proprio monastero, fu percosso dal cattivo spirito che gli fece la faccia nera. Lo piangevano morto, ma per fortuna il monaco Vitale si ricordò dello zoccolo del santo: lavano lo zoccolo, lo aspergono e gli fanno bere quell’acqua: l’infermo subito ritornò in sé. Subito si addormentò, perché era sera, e gli appare il santo, splendente, che gli dice: “Konon, credi, e sarai salvo”. Preso un coltello, incise la mano dell’infermo, e avendo estratto un verme, gli dice: “Ecco il cattivo spirito che ti flagella”. Si svegliò il monaco, e saltò dal suo letto tutto sano. Queste cose le ha raccontate proprio lui.
Il sacerdote Giovanni viveva con sua moglie nel Kastro delle Tortore [?]. Sua figlia, sposata, impazzì: tentò di uccidere i propri figli. Il padre le fece bere l’acqua con cui era stato lavato lo zoccolo, e guarì. Fece bere di quell’acqua anche a una donna muta dalla nascita, a un’altra donna che da diciotto giorni non poteva dormire, e guarirono. Per questo, pensarono di tenersi lo zoccolo, e io ho dovuto scrivere lettere finché il sacerdote Giovanni non l’ha restituito.
Ora prego tutti quelli che leggeranno queste cose, di rendere grazie a Dio. Tu, Elia, che hai raggiunto la Luce divina, tu splendido sole dell’Occidente, fa’nascere in noi l’increata Luce divina. O luminare dei luminari, pastore dei pastori, non dimenticare questo tuo gregge.
Giaculatoria -
9 Beato Enrico Canadell Quintana -
Schede dei Gruppi a cui appartiene: "Beati Martiri Spagnoli Scolopi" -
Olot, Spagna, 29 giugno 1890 -
Enrico Canadell Quintana nacque il 29 giugno 1890 ad Olot, diocesi e provincia di Gerona, da Franziskus Canadell y Presta e Margherita Quintana.
Venne battezzato il giorno seguente.
Il 22 ottobre 1905 iniziò il noviziato ed il 18 agosto 1907 fece i voti semplici. Dopo il periodo di forma-
Insegnava poi nelle Scuole Pie di Mataró, Balaguer e Barcellona.
Il 30 agosto 1936 venne messo nel carcere di Scatellón ed il 17 agosto fucilato nei pressi di Castelfullit.
Il 24 aprile 1939 i resti mortali di p. Enrico vennero riconosciuti. ucciso in odio alla Chiesa.
Beato Enrique [Enrico] Canadell Quintana, Scolopio, nato a Olot (Gerona, Spagna) il 29 giugno 1890, morto a Castellfollit (Barcelona, Spagna) il 17 agosto 1936. Martire.
Figlio di Francisco Canadell Presta e di Margarita Quintana.
Compì gli studi elementari e medi nel collegio di Olot. Vestì l'abito religioso [noviziato] a Moyà, a nord di Barcellona, il 22 ottobre 1905.
Sempre a Moyà, la prima istituzione degli Scolopi in Spagna, fece la Prima Professione il 18 agosto 1907. Continuò gli studi religiosi a Irache (Navarra) e Tarrasa (Catalogna).
In questa località fece la professione solenne il 29 giugno 1912.
Fu ordinato sacerdote a Lérida (Catalogna)il 20 dicembre 1913. Insegnò presso le Scuole Pie a Mataró ed a Balaguer; fu vicerettore a Barcelona.
Ucciso dagli anarco-
Beatificato da Giovanni Paolo II il 1° settembre 1995.
(Autore: Enrico Filaferro -
10 Sant' Eusebio -
m. 309
(Papa dal 18/04/309 al 17/08/309)
Greco. Dovette occuparsi del problema dei cosiddetti "lapsi", come erano chiamati coloro che avevano abiurato la fede cristiana durante le persecuzioni.
Martirologio Romano: In Sicilia, anniversario della morte di Sant’Eusebio, Papa, che, valoroso testimone di Cristo, fu deportato dall’imperatore Massenzio in quest’isola, da dove esule dalla patria terrena, meritò di raggiungere quella celeste; il suo corpo fu traslato a Roma e deposto nel cimitero di Callisto. Greco, Papa dal 18 aprile al 17 agosto del 309 o 310, morto in Sicilia fu riportato a Roma e sepolto nel Cimitero di Callisto in un cubicolo vicino a quello di Papa Caio. Dall’inizio del XVII secolo sue reliquie insigni si vogliono in San Lorenzo in Panisperna ed in Spagna. Il suo breve pontificato è raccontato dal carme di lode fatto da Papa San Damaso I: Damaso Vescovo Fece – Eraclio non volle che i Lapsi facessero penitenza dei loro peccati. Eusebio insegnò ai miseri a piangere le loro colpe. Si dividono in parte i fedeli col crescere della passione. Ribellioni, uccisioni, guerre, discordia, liti. D’improvviso sono tutti e due espulsi dal ferocissimo tiranno (Massenzio, sebbene il Papa serbasse interi i vincoli della pace. Lieto soffrì l’esilio per giudizio del Signore, e sui lidi di Sicilia lasciò il mondo e la vita. “Ad Eusebio Vescovo e Martire”. É così riportato dal Martirologio Romano alla data 17 agosto: A Roma Sant’Eusebio Papa. (Autore: Giovanni Sicari -
11 San Gerone -
Martirologio Romano: In Frisia, nel territorio dell’odierna Olanda, san Gerone, sacerdote e martire, che si tramanda sia stato ucciso da alcuni pagani normanni.
Giaculatoria -
12 Santi Giacomo Kyuhei Gorobioye Tomonaga e Michele Kurobioye -
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, Santi martiri Giacomo Kyuhei Gorobioye Tomonaga, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori, e Michele Kurobioye, condannati a morte per Cristo sotto il comandante supremo Tokugawa Yemitsu.
I Santi Domenico Ibàňez, Giacomo Kyushei Tomonaga, Domenicani, Lorenzo Ruiz, laico, e 14 compagni formano un gruppo di martiri in Giappone del 1633-
Il gruppo dei beatificati da Papa Giovanni Paolo II, il 18 febbraio 1981 a Manila, è composto di 13 Domenicani e di 3 laici. Ma per comprendere meglio la situazione della Chiesa in Giappone a quel tempo dobbiamo rintracciare alcuni aspetti storici.
Nella storia ecclesiastica del Giappone si distinguono tre date importanti: 1549, 1600 e 1640. Nel 1549, San Francesco Saverio arrivò in Giappone; nel 1600, lo Shogun (capo militare) Tokugawa Yeyasu inaugurò la dinastia legata al suo nome; nel 1640, il Giappone chiuse le sue porte al mondo occidentale, isolandosi per due secoli.
Dal 1549 al 1614, in un clima relativamente favorevole, San Francesco Saverio, al quale subentrarono i suoi confratelli Gesuiti e più tardi Francescani, Domenicani e Agostiniani, costruì una comunità cristiana fiorente. Nel 1600, in Giappone erano già più di 300.000 cristiani, tra i quali diversi membri delle classi influenti. A differenza delle Filippine, però, il cristianesimo giapponese nella prima metà del secolo XVII, sparì quasi completamente, sommerso da una violenta persecuzione.
Questa coincise con gli anni più gloriosi dello shogunado, un regime frutto di vari fattori di ordine religioso, politico e sociale.
Da tempi immemorabili la religione originaria del Giappone era lo Shintoismo, basato sul culto degli spiriti legati alle forze della natura e sul concetto dell'imperatore come discendente dalla Dea solare Amaterasu, come simbolo visibile e permanente. Quando nel secolo VI entrarono dalla Cina il Buddismo ed il Confucianesimo, mettendo profonde radici, lo Shintoismo e il prestigio dell'imperatore decaddero in modo considerevole. Il risultato di questo declino fu il feudalismo, mentre al¬l'imperatore rimaneva solo un ruolo di carattere morale e religioso.
Il potere effettivo passò ad un dittatore della classe guerriera, chiamato Shogun che, a sua volta, vide la sua autorità diluirsi tra diversi signori feudali chiamati daimyò, padroni assoluti dei loro vasti territori. Al loro servizio stavano i samurai e, al livello sociale inferiore, i poveri, privi di diritti umani: contadini, artigiani, commercianti ed operai. I daimyò si dedicarono spesso alla guerra tra di loro.
Tale situazione ebbe curiosamente dei vantaggi per l'evangelizzazione al¬l'arrivo di San Francesco Saverio e degli altri missionari. Espulsi da un feudo, i cristiani potevano fuggire in un'altro. Nell'ultimo quarto del secolo XVI due Shogun aprirono la strada per un movimento di unificazione, Oda Nobunga (1568 – 1582), nemico dei buddisti e simpatizzante per il cristianesimo, e poi Toyotomi Hideyoshi (1582 – 1598).
In modo quasi inspiegabile quest'ultimo divenne persecutore del cristianesimo e ordinò l'esecuzione dei 26 Protomartiri di Nagasaki (S. Paolo Miki e compagni). Alla morte dello Shogun Hideyoshi, il cristianesimo pote respirare di nuovo tra speranze e timori.
La vittoria di Sekigahara, nel 1600, diede il potere e lo shogunado a Toku¬gawa Yeyasu (1600 – 1616), al quale successero il figlio Hidetada (1616 – 1622) e il nipote Yemitsu (1622 – 1651), e poi una lunga serie di discendenti fino al 1868. Yeyasu conseguì l'unificazione nazionale e diede al paese una solida struttura legale ed amministrativa. Il Giappone iniziava ad essere governato da un'autorità centrale senza eliminare la relativa autonomia feudale dei daimyò.
La politica dei Tokugawa mostrò per questo sempre una certa diffidenza riguardo alla lealtà dei daimyò, sottomessi ma mai del tutto domati. Tale sospetto aumentava con la presenza di commercianti spagnoli e di religiosi cattolici, accusati dagli olandesi di essere la punta avanzata della conquista e dell'insurrezione. Cosa in realtà mai avvenuta.
Nel 1614 Yeyasu, giudicando la fede di tutti i suoi sudditi sulla base del buddismo e attorniandosi poi di ministri gelosamente confuciani, emise l'editto di persecuzione generale. Hidetada e Yemitsu intensificavano l'avversione al cristianesimo, come dimostra la cruenta persecuzione, in particolare nei riguardi dei martiri della presente Canonizzazione, la prima, insieme al primo Santo delle Filippine, Lorenzo Ruiz.
Prima di presentare le biografie di questi martiri immolati nel periodo 1633 – 1637, dobbiamo rispondere alla questione del ritardo nella beatificazione. La risposta è semplice. Le inchieste processuali tenute nel giro immediato dei fatti con due processi ordinari a Manila e a Macao (1636 – 1637) sul martirio di nove sacerdoti domenicani andarono smarrite 30 anni dopo e furono ritrovate solo all'inizio del secolo XX in copia autentica negli archivi domenicani di Manila.
Arricchiti con ampia documentazione di tutto il gruppo, resero possibile la ripresa della causa, preparando nel 1977 – 1978 la « Posizione » storica sul martirio, che venne pubblicata nel 1979 e posta alla base degli esami storico-
Il Santo Giacomo Kyushei nacque di famiglia nobile cristiana nel 1582 in Giappone. Studiò dai Gesuiti e diventò catechista. Nel 1614 partì dal Giappone e andò nelle Filippine, dove divenne terziario francescano. Successivamente fu ammesso all'Ordine Domenicano e ordinato sacerdote nel 1626. Fu mandato a Formosa, dove lavorò per 3 anni, e ritornò a Manila nel 1630.
Due anni dopo, nel 1632, partì di nuovo per il Giappone insieme con 10 altri missionari. Appena arrivati a Satzuma (Kyushu), furono denunciati alle autorità, ma riuscirono a scappare ed a iniziare il loro ministero tra i perseguitati.
Giacomo fu arrestato di nuovo nel luglio 1633 per la confessione del suo catechista Michele Kurobioye. Il 15 agosto fu sottoposto alle torture della forca e fossa e morì dopo due giorni di agonia. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri disperse nel mare. La motivazione della condanna a morte asseriva « per essere religioso e aver propagato la fede evangelica ».
Micheke Kurobioye, Laico Giapponese
Il Santo Michele Kurobioye era giapponese e lavorò per alcuni mesi come catechista con P. Giacomo. Verso la fine di giugno 1633 fu imprigionato e torturato per rivelare il nascondiglio dello stesso Padre.
Lo rivelò, ma subito se ne pentì e andò al martirio insieme con lui, sopportando le torture della forca e fossa il 15 agosto 1633 e morendo dopo due giorni.
Il 18 febbraio 1981, Papa Giovanni Paolo II ha beatificato i martiri a Manila e, il 18 ottobre 1987, li ha canonizzati. (Autore: Andreas Resch – Fonte: I Santi di Johann Paolo II. 1982-
13 Santa Giovanna della Croce (Jeanne Delanoue) -
Saumur, Francia, 18 giugno 1666 -
Nacque a Saumur, sulle rive della Loira, in Francia, il 18 giugno 1666. I suoi genitori gestivano un modesto negozio di merceria, nei pressi del santuario di Notre-
Lei prese a visitare coloro che vivevano nelle stalle scavate nella collina, portando loro nutrimento e vestiti, lavando i loro abiti e se necessario donandogli i suoi e cominciò anche ad accoglierli in casa propria. Poi arrivarono alcune giovani per aiutarla. Così nel 1704 nacque la congregazione di Sant'Anna della Provvidenza. E nel 1715 sorse a Saumur una casa per poveri.
Alla sua morte, il 17 agosto 1736, la fondatrice lasciò una dozzina di comunità, ospizi ed anche piccole scuole.
A Saumur risuonò l'annuncio: «La sainte est morte», cioè «La santa è morta». È santa dal 1982. (Avvenire)
Jeanne Delanou nacque a Saumur, sulle rive della Loira, il 18 giugno 1666, ultima di dodici figli. I suoi genitori gestivano un modesto negozio di merceria, nei pressi del santuario di Notre-
Ci si sarebbe dunque potuti aspettare che il suo sogno non fosse che ampliare e rendere più prosperoso il suo giro di affari. Ma ecco che, all'età di ventisette anni, nei giorni di Pentecoste ricevette un inaspettato invito, da parte della vecchia e fedele pellegrina Francesca Souchet del suddetto santuario, a consacrarsi ai poveri, così numerosi. Jeanne manterrà una mistica familiarità con la Vergine Maria, sull'esempio dell'allora giovane San Luigi Grignion de Montfort che non poteva che incoraggiarla su questa via.
Saumur, suo paese natale, fin dal XVII secolo fu segnato da grandi difficoltà materiali e sociali, ancor più gravi per le donne, cattivi raccolti, inverni rigidi. Lei che era conosciuta come una commerciante prudente ed interessata, divenne improvvisamente “molto prodiga in carità”, quando lo Spirito Santo, spegnendo “il fuoco della sua avarizia”, le fece comprendere che la sua fede ardente richiedeva anche “il fuoco della carità”.
Nonostante fossero accresciute le sue responsabilità lavorative per la morte della madre, Jeanne iniziò dunque ad occuparsi un po' dei poveri, in risposta a questo appello che sentiva venire da Dio. Prese a visitare coloro che vivevano come animali nelle stalle scavate nella collina, portando loro nutrimento e vestiti, lavando i loro abiti e se necessario donandogli i suoi, preoccupandosi di riscaldare questi precari rifugi.
Distribuiva con larghezza ai passanti, ma cominciò anche ad accoglierli in casa propria: nel 1700 un bambino fu accolto nella sua casa, seguito poi da malati, anziani ed indigenti. Attrezzò poi successivamente tre case che le furono prestate e le chiamò “Provvidenza”, per ricevervi bambini orfani, giovani ragazze abbandonate a se stesse, donne in miseria, vecchi, indigenti di ogni sorta, colpiti dalla fame e dal freddo. Non volle fare distinzione tra i poveri meritevoli e non: li soccorse tutti, ma volle anche insegnare un lavoro ai bambini e alle ragazze.
Ma Jeanne Delanoue visse anche in prima persona l'esperienza delle umiliazioni dei poveri, andando alcune volte persino a mendicare, mangiando spesso peggio di loro, senza contare i suoi continui digiuni, le sue brevi e scomode notti. Prestava dunque loro attenzione quotidianamente, più che ai suoi clienti, sino ad arrivare a far ciò a tempo pieno. I poveri iniziarono ad accorrere da lei, senza aspettare che si verificasse il contrario.
Nel 1704, alcune giovani ragazze si resero disponibili ad aiutare Jeanne, nonché a vestire l'abito religioso se ciò fosse stato loro richiesto. Nacque così inaspettatamente la Congregazione di Sant'Anna della Provvidenza, le cui Costituzioni furono approvate nel 1709. Volle allora che anche le sue Sorelle condividessero la stessa casa dei poveri, mangiassero come loro, come loro fossero trattate in caso di malattia, e vestite di un umile abito grigio. Quanto ai suoi poveri, li seppe sempre circondare di tenerezza, talvolta procurando loro pranzi di festa, esigette che le sue Sorelle li salutassero con rispetto, servendoli prima di esse.
I borghesi del suo paese e perfino i sacerdoti criticarono le sue austerità “eccessive” e le sue carità “disordinate”. Ma niente riuscì a fermarla, nemmeno il crollo della prima abitazione di accoglienza: “Voglio vivere e morire con i miei cari fratelli: i Poveri”.
La tenacia di Jeanne Delanoue e la sua grande dedizione portarono alla fondazione del primo ospizio di Saumur nel 1715. La sua carità debordò assai velocemente fuori dai confini della città e della diocesi. Jeanne giunse infatti già a contare ben quaranta ausiliarie, tutte ai suoi ordini, decise a seguire il suo esempio di abnegazione,di preghiera e di mortificazione.
Alla sua morte, il 17 agosto 1736, la fondatrice lasciò una dozzina di comunità, ospizi ed anche piccole scuole. A Saumur risuonò l'annuncio: “La Sainte est morte”, cioè “La Santa è morta”.
Tutti avevano potuto ammirare il suo zelo, la sua azione nelle numerose visite ricevute o fatte, ma solo gli intimi conobbero la sua mortificazione e la sua vita di preghiera e di unione a Dio, unica vera fonte di provenienza della carità.
Le Suore di Jeanne Delanoue, come sono chiamate semplicemente oggi, contato circa 400 religiose in Francia, in Madagascar ed a Sumatra.
Dichiarata “venerabile” il 7 giugno 1929, fu poi beatificata il 5 novembre 1947 dal pontefice Pio XII ed infine canonizzata il 31 ottobre 1982 da papa Giovanni Paolo II, che affermò in tale occasione: “Celebriamo oggi ciò che lo Spirito di Dio ha realizzato in Margherita Bourgeoys e in Giovanna Delanoue, vissute circa tre secoli fa. Già il mio predecessore Pio XII le aveva dichiarate “Beate” in base alla eroicità delle loro virtù. Iscrivendole oggi nel numero dei “Santi”, con la certezza e l'autorità che caratterizzano il rito della canonizzazione, noi le proponiamo come esempio non più soltanto alle loro diocesi di Troyes, di Angers, alla città di Saumur o alle due Congregazioni da esse fondate, ma all'insieme della Chiesa, invitando tutti i cristiani ad onorarle come Sante e a ricorrere alla loro intercessione”. Ed ancora: “Infine, mentre proclamiamo la santità di Giovanna Delanoue, è importante cercare di comprendere il segreto spirituale della sua devozione senza pari.
Non sembra che il suo temperamento la spingesse verso i poveri per sentimentalismo o per pietà. Ma, lo Spirito Santo le fa vedere Cristo in questi poveri, Cristo Bambino nei loro bambini -
Tutto questo era molto lontano dal giansenismo imperante. Il suo attaccamento alla Chiesa le impediva di incamminarsi su strade nuove senza consultare i suoi confessori e il Vescovo della diocesi. Ma sarebbe qui insufficiente parlare di una sana teologia, di una ricca spiritualità, ereditata dal meglio della Scuola francese. Giovanna Delanoue molto in fretta ha imparato non solamente l'eroicità delle virtù evangeliche, quelle del Discorso della montagna, ma anche una profonda contemplazione delle persone divine, con segni mistici della più alta unione con Dio, per la via unitiva, bruciante d'amore per Gesù suo Sposo. È proprio lì che prendono la loro ispirazione e il compimento la follia della sua carità, l'audacia delle sue iniziative”. (Autore: Fabio Arduino -
14 San Mama di Cesarea di Cappadocia (17 agosto)
m. 275 c.
Martirologio Romano: A Cesarea in Cappadocia, nell’odierna Turchia, san Mamas, martire, che, umilissimo pastore, visse solitario tra le selve dei monti in massima frugalità e subì il martirio sotto l’imperatore Aureliano per aver professato la sua fede in Cristo.
Con questo nome vi sono due santi, ambedue martiri, uno maschile e una femminile, la donna è martire in Persia, mentre l’uomo è il nostro martire Mama di Cesarea di Cappadocia.
Egli è uno dei santi più popolari dell’Oriente bizantino e lo studio della sua vita interessa la storia, il folklore, la storia dell’arte, l’archeologia, la patristica. Le fonti che ne raccontano la vita sono tante, ma le più antiche ed attendibili sono due omelie, redatte da s. Basilio Magno e da s. Gregorio Nazianzeno intorno al 303, purtroppo pur essendo ricche di elogi per il martire, sono avare di particolari cronologici.
Mama di famiglia modesta e povera, faceva il pastore di pecore e con questo umile mestiere concluse la sua vita con il martirio, le due omelie non dicono altro, ne su lui, ne sui genitori, età, epoca, genere del martirio.
Poi i due vescovi si dilungano sulla popolarità del culto di Mama a Cesarea, dove subì il martirio e nei dintorni; culto alimentato dai numerosi miracoli operati dal martire taumaturgo, con addirittura risurrezioni di fanciulli defunti, al punto che è considerato ‘padre della città’.
Nelle successive recensioni agiografiche, il racconto della ‘Vita’ si fa più ampio e denso di particolari fantastici, che si aggiungono man mano, nelle varie scritture che si susseguono. Ne prendiamo la più antica, del secolo IV, scritta dopo le due omelie sopra citate; si tratta della ‘passio’ a forma di enciclica, dei vescovi Eutrepio, Cratone e Perigene.
Al tempo dell’imperatore Aureliano (270-
Però là giunto, il conte e 200 soldati si convertono al Cristianesimo, allora l’imperatore impegnato in guerra contro la Persia, sospende la persecuzione. In seguito il vescovo Taumasio muore ed i pagani si rivoltano, bruciano la chiesa e fanno strage di cristiani, risparmiando Mama, visto la giovane età.
Questo invece si mette a predicare contro l’idolatria pubblicamente, finché una voce che sente solo lui, gli ordina di lasciare la città e di portarsi sui monti, nel folto della foresta, per predicare il Vangelo alle bestie che là vivono; la stessa voce gli indica dove trovare un codice del Vangelo, che era sotterrato fra i ruderi di una chiesetta incendiata; una volta trovatolo se lo porta sul monte, dove vive in una grotta.
Trascorre il giorno in solitudine, cibandosi di quello che trova e bevendo il latte che munge agli animali, anche feroci, che insieme agli uccelli e altre specie, si radunano il pomeriggio intorno a lui per ascoltare la lettura del Vangelo.
Erano trascorsi cinque anni, quando l’imperatore Aureliano mandò un altro preside di nome Alessandro, feroce nemico dei cristiani, per riprendere la persecuzione sospesa. Questi saputo di Mama e del prodigio delle bestie che l’ascoltavano, attribuendo il fatto a magia, manda un manipolo di soldati ad arrestarlo.
Questi soldati, vengono accolti con cortesia da Mama, rifocillati col formaggio da lui prodotto e arrivata l’ora consueta, assistono alla venuta di una moltitudine di animali grandi e piccoli, innocui e feroci, che si radunano intorno al giovane.
Spaventati, specie per la presenza dei leoni, chiamano Mama in aiuto, il quale li calma e rassicura, parlando loro dell’unico Dio creatore e di Gesù suo figlio, artefice anche di quel prodigio e li invita alla conversione per non essere al di sotto delle bestie, che ascoltavano la lettura del Vangelo.
I soldati i cui nomi sono Abdan, Dan, Niceforo, Milezio, Romano, Didimo, Secondino e Prisco, si convertono e chiedono il battesimo; allora Mama scende con loro dal monte per accompagnarli dal preside, lungo la strada incontrano il prete Cratone che li battezza; giunti ad Alessandria per fare un’apologia del cristianesimo, vengono imprigionati.
Mama nel frattempo viene sottoposto a svariate torture, tutte con pericolo di vita, da cui esce incolume e dopo che insieme ai soldati convertiti supera il supplizio delle belve, vengono infine tutti decapitati (275).
Dopo un po’ di tempo, morì Aureliano e la persecuzione cessò, quindi i cristiani elevarono, una basilica, sul luogo del supplizio del grande martire.
Primo centro del culto di Mama, fu Cesarea di Cappadocia, oggi Kayseri in Turchia, dove sulla tomba del martire era sorto un santuario meta di ininterrotti pellegrinaggi, che giungevano attirati dalla fama taumaturgica del santo.
Altre chiese e monasteri gli vennero dedicati nei secoli successivi, in tutto l’Oriente cristiano, a partire da Costantinopoli. In seguito alla traslazione di reliquie, il culto si estese a Cipro, Grecia e in Occidente, dove il centro del culto fu ed è la cattedrale di Langres in Francia.
È venerato in Toscana e Veneto; in Occidente fu eletto a patrono delle nutrici a causa del suo nome e perché nutrito del latte delle bestie ammansite; in Oriente è soprattutto invocato come protettore del bestiame.
Il suo nome compare in decine di Martirologi, Calendari, Sinassari, orientali ed occidentali in tanti giorni diversi, il ‘Martirologio Romano’ prendendolo dallo ‘Geronimiano’ lo pone al 17 agosto, giorno che a Langres viene celebrato solennemente.
Pochi santi dell’antichità hanno avuto un culto così vasto; come pure Mama è diventato soggetto di tante opere d’arte che lo raffigurano, specie durante il prodigio della lettura evangelica agli animali e durante il suo martirio; a volte mentre è legato ad una colonna e un carnefice lo trafigge al ventre con un tridente. (Autore: Antonio Borrelli -
15 San Mirone di Cizico -
m. Cizico, 250
San Mirone, presbitero e martire, che secondo la leggenda fu decapitato dopo molti tormenti a Cizico nell’Ellesponto, sotto il governatore Antipatro e regnante l’imperatore Decio.
Martirologio Romano: A Cizico in Ellesponto, nell’odierna Turchia, san Mirone, sacerdote e martire, che, come si tramanda, fu decapitato dopo molti supplizi sotto l’imperatore Decio e il governatore Antipatro.
Giaculatoria -
16 Beato Natale Ilario Le Conte -
Martirologio Romano: Nel braccio di mare antistante Rochefort in Francia, beato Natale Ilario Le Conte, martire, che, chierico della cattedrale di Bourges preposto all’ufficio di musico, gettato in una galera durante la persecuzione in odio alla religione, morì per Cristo consunto da malattia.
Giaculatoria -
17 San Nicola (Nicolò) Politi -
1117 -
Nacque nella città d'Adernò (oggi Adrano -
Nicolò nasce nella città d'Adernò (oggi Adrano -
Già alla nascita dei segni straordinari sono testimoni della volontà di Dio; infatti, l'acqua con la quale venne lavato, appena nato, versata in terra, fece zampillare una tiepida sorgente. Iniziò ad astenersi dal latte materno il mercoledì, il venerdì ed il sabato, ma ciò nonostante crebbe in salute e nella grazia di Dio.
Crebbe nell'affetto dei genitori, fu istruito alla dottrina cristiana, imparò a leggere e scrivere (in quegli anni in Adernò vi erano i Normanni e la cultura cristiana più diffusa era quella basiliana).
Nicolò crebbe in grazia di Dio e si avvicinò sempre più alla contemplazione dei misteri della passione di Cristo ed alla preghiera costante della Vergine Maria fino a consacrare la sua vita al Signore.
Ancora ragazzino con la sua fede permise la conversione di molti, e tale era la sua fiducia in Gesù che col segno della croce scacciava i lupi che assalivano gli ovili, sanava le pecore, non ultimo intercedeva per la guarigione dai malati.
Iniziò la sua penitenza, con preghiere e mortificazioni, finché nel giorno delle nozze, imposte dai genitori, un Angelo del Signore lo esortò a seguirlo. Egli subito obbedì fuggendo dalla casa paterna. Così a 17 anni iniziò la sua vita eremitica, fortificando il suo spirito in una grotta alle falde dell'Etna sita ad alcuni chilometri da Adernò, armato della fede in Cristo e di un bastone crociato rendendosi docile all'Eterno Amore.
La sua famiglia non si diede pace e lo cercò a lungo, talché un giorno, dopo tre anni dalla sua fuga, furono prossimi alla grotta dove dimorava. In tale circostanza un Angelo avvisò Nicolò consigliandolo di recarsi presso il monte Calanna in terra d'Alcara, con la promessa che quel luogo sarebbe stato la sua finale dimora.
Nicolò s'incamminò, con la scorta miracolosa di un'aquila, e giunto in un bosco, prossimo ai monti Nebrodi,il Demonio in veste di ricco mercante lo tentò. Satana lo lusingò, promettendogli ricchezza e piaceri terreni. Nicolò meditando le piaghe di Gesù innalzò la croce e nel nome di Cristo Signore pregò d'essere liberato da quella tentazione e subito il Tentatore svanì.
Lungo il cammino sostò presso l'abbazia basiliana sita a Maniace dove incontrò un giovane monaco Lorenzo da Frazzanò. Questi comprese la volontà del Cielo e con affetto fraterno indirizzò Nicola presso il Monastero di Santa Maria Del Rogato.
Il Santo eremita proseguì il viaggio giungendo in territorio d'Alcara Li Fusi (Messina). Ormai stremato ottenne da Dio di far sgorgare una sorgente percotendo una roccia col suo bastone crociato, e quel luogo è ancor oggi detto Acqua Santa.Inerpicandosi lungo il monte Calanna vide l'aquila posarsi su una roccia. In quel luogo il trovò una spelonca: la sua nuova ed ultima abitazione. L'aquila s'allontanò e poco dopo ritornò portando con se mezzo pane fresco e fragrante che depose all'ingresso della grotta.
Come indicatogli da Lorenzo, Nicola si recò presso il Monastero basiliano del Rogato. Qui trovò la guida spirituale e divenne monaco laico accettando il piccolo abito e la regola basiliana. In questo monastero per il resto della vita, ogni sabato,percorrendo un impervio tragitto si recò per confessarsi e ricevere l'Eucaristia.
Nel 1162 Nicola, trovandosi presso il Rogato, scorge l'amico Lorenzo: l'incontro tra i due Santi amici commosse molto i monaci del monastero. I due amici trascorsero insieme quella santa giornata presso l'eremo del Calanna; Lorenzo rabbrividì vedendo l'orribile condizione in cui Nicola aveva vissuto tutti quegli anni e si stupì (nonostante anch'egli manifestasse segni straordinari e miracolosi di santità) di come l'amico avesse fatto a sopravvivere così a lungo in quelle condizioni. Pregarono e lodarono l'opera mirabile di Dio, cenarono con erbe, radici e col pane (stavolta intero) portato dall'aquila; infine, Lorenzo confidò all'amico (avendo avuta una rivelazione dal Cielo) che il 30 Dicembre di quell'anno egli sarebbe morto. Al mattino del dì seguente si scambiarono l'abbraccio dell'addio, Lorenzo benedì Nicola e gli promise ancora un segno di saluto su questa terra. Nicolò non comprese subito, ma il 30 dicembre, domenica, allorché alla sera la sua grotta fu inondata di luce soave e da un profumo di rose, capì che in quel momento l'Anima di Lorenzo saliva al Cielo e gli mandava l'ultimo saluto.
Sabato 12 agosto 1167 Nicolò, si recò come di solito al Rogato e poi rientrò alla sua grotta affaticato, esausto. Sentiva il suo spirito sempre pronto e disposto a soffrire, ma il corpo era infermo, si reggeva a stento. Pregò il Signore di liberarlo dai lacci che lo legavano alla vita terrena e di accoglierlo in Cielo. Poco dopo una voce angelica gli rivelo che 2 giorni dopo la festa dell'Assunzione di Maria la sua anima sarebbe salita in Cielo.
Nicola ebbe il cuore colmo di gioia e ,ringraziato il Signore, si preparò all'ora sospirata della liberazione da questo mondo. Martedì 15 Agosto si recò al Rogato per l'ultima confessione e ricevere per l'ultima volta l'Ostia santa, si congedò da tutti i monaci raccomandandosi alle loro preghiere.
Il 16 agosto, vigilia del grande giorno, ricevette l'ultima visita della fedele aquila che, dopo aver deposto il consueto pane miracoloso, si librò in alto e prima di scomparire in lontananza compì sulla grotta vari giri per dare l'ultimo saluto. Nicolò si commosse per quel gesto e ringraziò e benedì quella creatura di Dio.
Per 50 anni fu come fiaccola ardente assiduo nella preghiera costante, nella penitenza e nei cilizi, mantenendosi candido come giglio e puro come acqua cristallina.
All'alba del 17 Agosto 1167 Nicolò, che vegliò tutta la notte in preghiera, era nella grotta, inginocchiato, con la rustica croce fra le braccia e il libro delle orazioni aperto sulle mani. Levò lo sguardo al cielo col cuore rivolto a Dio in uno slancio supremo di adorazione, di offerta, di amore.
In tale atteggiamento, all'apparir del sole, avvenne il sereno transito: l'Anima dolcissima di Nicolò si dislacciò dal gracile corpo e volò alle sfere celesti. (Autore: Gaetano Sorge -
18 Beato Ugo di Tennenbach -
1190 -
Nel Menologio cistercense è ricordato al 17 agosto il beato Hugo (Ugo) monaco cistercense tedesco. Egli nacque nel 1190 e durante la sua giovinezza dimostrò un carattere instabile.
Intraprese la strada del sacerdozio, ma mentre ancora era suddiacono, la sua vocazione venne meno e quindi si lasciò andare verso i piaceri del mondo.
Ma la sua strada era tracciata, cadde gravemente ammalato e pentito della sua scelta, fece di tutto per farsi perdonare, ritirandosi in una stalla per imitare l’umiltà di Cristo. Poi sentì il bisogno di farsi religioso e bussò alla porta dell’abbazia cistercense di Tennenbach vicino Friburgo, nella diocesi di Costanza, dove ritornò alla vita religiosa e intemerata di prima, pur lottando contro grandi tentazioni.
Ebbe in sogno il conforto di un suo fratello defunto, anch’egli monaco e prete nella stessa abbazia e si decise a pronunciare i voti. La sua fu una vita travagliata da molteplici tentazioni, che contrastò con veglie, digiuni e discipline per 40 anni e sebbene molto malato, non volle mai mangiare carne e bere vino.
Fu ordinato sacerdote e celebrava ogni giorno la S. Messa con grande devozione, ebbe incarichi di responsabilità, che espletò con sacrificio al servizio dei fratelli e durante la notte per un certo tempo, era dedito alla contemplazione.
Il 20 agosto 1270, festa di s. Bernardo, celebrò la Messa con maggiore lentezza e fervore del solito, i frati intuirono che la fine era vicina e così dopo aver assistito alle celebrazioni liturgiche della festa del santo fondatore, verso sera chiese l’estrema unzione e raccomandandosi alla SS. Trinità, morì ad 80 anni. (Autore: Antonio Borrelli -
Giaculatoria -