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Esseri Umani

Con Gesù > Storie brevi per l'anima
Molti anni fa, in Cina, vivevano due amici. Uno era molto bravo a suonare l'arpa. L'altro era dota­tissimo nella rara arte di saper ascoltare.
Quando il primo suonava o cantava di una montagna, il secondo diceva: «Vedo la montagna come se l'avessimo davanti».
Quando il primo suonava a proposito di un ruscel­lo, colui che ascoltava prorompeva: «Sento scorrere l'acqua fra le pietre». Ma un brutto giorno, quello che ascoltava si am­malò e morì.
Il primo amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più.
Esistiamo veramente se qualcuno ci ascolta. Il do­no più grande che possiamo fare ad una persona è ascoltarla «veramente».
Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra. Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero "ridente". Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano "toc toc, toc toc, toc toc...", accompagnato da un ansimare cupo e raschiante. Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane.
"É un forestiero".
"Un gigante...".
"Mamma mia, quant'è brutto!".
"Ha l'aria feroce...".
"É un mostro! Divorerà i bambini".
Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco. Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve. Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso: doveva avere un terribile raffreddore. Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C'era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera. Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell'osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
"Io l'ho visto bene e da vicino: è terribile".
"L'ho guardato negli occhi: fanno paura".
"Sputa fiamme dalle narici!".
"Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta" gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese. Tutti i giovanotti sospirarono.
"É il diavolo" disse una nonna.
"Ma che diavolo! É un orco mangia-uomini... poveri noi!", singhiozzò una vecchietta.
"Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!" sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
"Io l'ho visto da vicino vicino" disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
"Anch'io, ero con lui" gli fece eco la sorellina Liliana.
"Ecco, anche i bambini" brontolò Sebastiano, il sindaco. "E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?".
"No" disse Simone.
"Non faceva paura" disse Liliana. E aggiunse: "Era solo diverso da noi".
Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro. Sbirciavano in su, verso il bosco. Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall'eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
"É il mostro! Aiuto!", e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini.
"Non abbiate paura, qui siamo al sicuro". I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
"Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi".
Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente. I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano. I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno. Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva; "Tò, il mostro starnuta, S'è di nuovo raffreddato", e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni. Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno. Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide. "Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?".
"Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera. Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
Samuele replicò ridendo: "Scommettiamo che non hai il coraggio?".
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l'altro mattone: "É vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui. Aspettami, Tom, vengo con te".
Tommaso disse: "D'accordo, ma l'idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!".
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare: "Dove andate?".
Tommaso spiegò: "Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera".
Il contadino disse: "Per me non avrete il coraggio. E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna? É sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta".
"Griderò: 'Vieni fuori, mostro!'. Dovrà ben uscire", dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò: "Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui".
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all'orto della signora Zucchini.
"Dove andate?" chiese la signora Zucchini quando li vide. "Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera" rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò: "Non ne avrete il coraggio. Dicono che sia orribile e peloso. E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno".
Tommaso e Samuele protestarono: "Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui".
"Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese" aggiunse il contadino.
"Vengo anch'io" decise la signora Zucchini. "Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli: voglio che anche loro siano degli eroi".
Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò: "Non c'è nessuno che voglia abitare nella caverna nera: perché non la lasciamo al mostro?".
La madre gli rispose: "Perché è un mostro, tutto qui. Allora taci, prendi un mattone e seguici".
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano. Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola. Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
"Lo faremo scappare nel paese vicino" gridò la signora Zucchini. "L'abbiamo tenuto abbastanza, noi! Che vada a disturbare gli altri, adesso!".
Tutti gridarono: "Urrà, bene! Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
E si misero in marcia verso la caverna nera.
Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po' di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d'arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: "Finalmente una visita! É tanto tempo che sono solo!".
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio. Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso. Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti: Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola. Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò: "Entrate, entrate. Ho appena fatto il caffè". Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti. Il mostro insisteva: "Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!".
Ma nessuno capiva la lingua del mostro. Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle. Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo "Ahia!". Erano tutti troppo occupati a fuggire. Così il mostro si trovò, un po' imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso. In quattro e quattr'otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata "Bacio di mamma" che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale. Non ebbero tempo di riprendere fiato. Una voce gridò: "Il mostro ha preso Liliana!". "Se la mangerà" strillò la signora Zucchini. "Corriamo a liberarla" disse un coraggioso. Ripresero tutti la strada della caverna nera. Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana. Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
"Ooooh" dissero tutti insieme.
"Ah! Siete tornati, meno male", disse il mostro. "Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo. La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato. Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta. Grazie, davvero, di cuore".
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse: "Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?".

*E nessuno è venuto?

Il bambino arrivò a casa in lacrime. Il nonno gli corse incontro e lo strinse tra le braccia. Il bambino continuò a singhiozzare. Il nonno lo accarezzò, cercando di calmarlo.
«Ti hanno picchiato?» gli chiese.
Il bambino negò scuotendo la testa.
«Ti hanno rubato qualcosa?».
«No» singhiozzò il bambino.
«Ma che ti è successo, allora?» fece il nonno, preoccupato.
Il bambino tirò su con il naso, poi raccontò: «Giocavo a nascondino, ed io mi ero nascosto proprio bene. Ero là che aspettavo, ma il tempo passava... Ad un certo punto sono uscito fuori e... mi sono accorto che avevano finito di giocare ed erano andati tutti a casa e nessuno era venuto a cercarmi». I singulti gli scuotevano il piccolo petto. «Capisci? Nessuno è venuto a cercarmi».

«Verso sera l'uomo e la donna sentirono che Dio, il Signore, passeggiava nel giardino. Allora, per non incontrarlo, si nascosero tra gli alberi del giardino. Ma Dio, il Signore, chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?". L'uomo rispose: "Ho udito i tuoi passi nel giardino. Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto"» (Genesi 3,8-10).
L'episodio riguarda tutti gli uomini di tutti i tempi Soprattutto gli uomini della nostra generazione. «Dove sei?». Forse ti sei nascosto. Per paura. Per vigliacche Per pigrizia. Ma Dio continua a cercarti.
Dopo aver ascoltato la parabola del tesoro nascosto nel campo, al catechismo, un bambino disse: «Dio, per te io sono un tesoro!».
Non era proprio questo il senso della parabola, ma aveva ragione il bambino.

*Eliogabalo e Matusalemme

Il piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due ragazzi poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel collegio dei ragazzi poveri. "Sai che domani è Natale?" chiese Gabalo, un giorno che tutti e due stavano spalando la neve dall'ingresso dell'istituto. "Ah, davvero?" rispose Matusalemme. "Spero proprio che la signora Pynchurn non se ne accorga. Diventa particolarmente antipatica nei giorni di festa!". L'antipatica signora Pynchum era la direttrice dell'istituto dei poveri, ed era temuta da tutti.
Matusalemme proseguì: "Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci sia davvero?". "Certo che c'è". "E allora perché non viene mai qui alla casa dei poveri?". "Beh", rispose Gabalo, "noi stiamo in una strada tutte curve, lo sai no? Forse Babbo Natale non riesce a trovarla". Gabalo cercava sempre di mostrare a Matusalemme il lato bello delle cose, anche quando non c'era!
Proprio in quel momento un'automobile investì un povero cane che cadde riverso sulla neve. Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che aveva una zampa rotta. Fece una stecca e fasciò strettamente la zampa del cane. Gabalo lesse sul collare che il cane apparteneva al dottor Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese in braccio e si avviò verso la casa dei dottore.
Il dottore aveva una gran barba bianca lo accolse con un sorriso e gli chiese chi aveva immobilizzato e steccato così bene la zampa dei cane.
"Perbacco, io, signore", rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri animali ammalati che aveva guarito. "Sei un ragazzo davvero in gamba!" gli disse alla fine il dottor Carruthers guardandolo negli occhi. "Ti piacerebbe venire a vivere da me e studiare per diventare dottore?".
Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e non essere più uno "della
Casa dei Poveri", diventare un dottore! "Oh, oh s-s-sì, signore! Oh...". Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme? "Io... io vi ringrazio, signore" disse. "Ma non posso venire, signore! E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa".
Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all'istituto con le braccia cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: "É arrivato Babbo Natale!". Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto dai vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande. Dopo un attimo, il dottor Carruthers disse: "Conosco un ospedale in città dove potrebbero guarirti. Hai parenti o amici?". "Oh, sì", rispose subito Matusalemme, "ho Gabalo!". Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. "E' per lui che non hai voluto venire a stare da me, figliuolo". "Beh, io... io sono tutto quello che lui possiede", rispose Gabalo. Il dottore, profondamente commosso, disse: "E se prendessi anche Matusalemme con noi?".
Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non sapeva che sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un chirurgo famoso. Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva trovato la strada per la casa dei poveri e che lo portava via con Gabalo.

Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormendo con la manina sotto la guanciale e i capelli biondi appiccicati alla fronte. Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono seduto a leggere in biblioteca, un'ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.
E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.
A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai cominciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: «Ciao, papino!» e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: «Su diritto con la schiena!». E tutto è ricominciato da capo nel tardo pomeriggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze buca­te. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell'offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale impaziente per l'interruzione sei rimasto esitante sulla porta. "Che vuoi?", ti ho aggredito brusco. Tu non mi hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue bracine mi hanno stretto con l'affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be', figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un'angoscia terribile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a trovare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Nient'altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergogna.
É una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripetermi, come una formula di rito: «É ancora un bambino, un ragazzino!». Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei ancora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa della spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.
Vogliamo sempre troppo... dagli altri.
Una fabbrica aveva un problema di furti. Ogni giorno veniva rubata della merce. I dirigenti affida­rono quindi ad una società specializzata il compito di perquisire ogni dipendente che usciva alla fine del lavoro.
La maggior parte degli operai apriva spontanea­mente la borsa e taceva esaminare i contenitori della colazione. I detective erano molto diligenti e control­lavano tutti i dipendenti, fino all'ultimo: un omino che tutti i giorni chiudeva la fila degli operai con un carrello pieno di rifiuti. Una guardia doveva passare una buona mezz'ora, quando ormai tutti gli altri se ne stavano tornando a casa, a rovistare tra involucri di alimenti, mozziconi di sigarette e bicchieri di pla­stica per controllare se veniva portato fuori qualcosa di valore. Non trovava mai niente.
Una sera, il guardiano, esasperato, disse all'uomo: «Senti, lo so che stai combinando qualcosa, ogni giorno controllo ogni più piccolo pezzetto di rifiuto nel carrello e non trovo mai niente che valga la pena di essere rubato. Sto diventando pazzo. Dimmi quello che stai facendo e ti prometto che non farò nessun rapporto».
L'uomo alzò le spalle e disse: «É semplice, rubo carrelli».
Noi fraintendiamo completamente il senso della vita quando pensiamo che la nostra vita sia tempo da usare alla ricerca di premi e piaceri. Freneticamente e con sempre maggiore frustrazione, rovistiamo fra i nostri giorni, i nostri anni, alla ricerca della ricompensa, del successo che dia valore alla nostra vita, come la guardia che cerca le cose di valore tra i ri­fiuti del carrello lasciandosi scappare la risposta più ovvia: quando avrete imparato a vivere, la vita stessa sarà la ricompensa.
E la vita è tutto quello che abbiamo.
Due amici facevano la stessa strada che attraversava una pericolosa e tenebrosa foresta. Improvvisamente un orso enorme e ringhiante si parò davanti ai due uomini. Uno, in preda alla paura si arrampicò su un albero e si nascose, l'altro non fece in tempo e accorgendosi di non essere in grado si sfuggire alla bestia feroce si lasciò cadere a terra, fingendo di essere morto. Sapeva infatti che gli orsi non toccano i morti.
Quando gli arrivò vicino, l'orso lo annusò, gli grugnì negli orecchi, provò a smuoverlo con il muso. Il poveretto tratteneva il respiro con tutte le sue forze. L'orso lo credette effettivamente morto e se ne andò.
Appena vide sparire tra gli alberi l'orso, l'altro uomo scese dall'albero su cui si era arrampicato e chiese all'amico: "Che cosa ti ha detto l'orso all'orecchio?".
"Mi ha detto di non viaggiare più insieme a certi amici, che nel momento del pericolo Invece di aiutarmi se la danno a gambe levate".
L'amore fa ancora molta paura. Esso chiede il lasciarsi andare, l'abbandono di sé, l'abbandono a sé, la fiducia che abbaglia e non acceca, la donazione assoluta.
Bisognerà render conto della paura e dell'avarizia che impedirono di amare, dell'accecamento e dell'orgoglio che soffocarono gli slanci.
Bisognerà render conto di tutti i gesti non compiuti, delle lacrime ingoiate, dell'amore non dato, delle promesse e del tempo perduto.
Bisognerà pagare per tutte le parole non dette, per tutte le carezze perdute, per tutti i sogni abbandonati.

*Gli auguri

Il piccolo Carlo era un bambino timido e tranquillo. Un giorno arrivò a casa e disse a sua madre che avrebbe voluto preparare una cartolina di San Valentino per tutti i suoi compagni di classe. La madre istintivamente esclamò: «Ma no! Non è il caso!».
Ogni giorno osservava i bambini quando tornavano a casa a piedi da scuola. Il suo Carlo arrancava sempre per ultimo.
Gli altri ridevano e formavano un'allegra e rumorosa combriccola.
Ma Carlo non faceva mai parte del gruppo.
La madre decise di aiuta il figlio e acquistò cartoncini e pennarelli. Per tre settimane, sera dopo sera, Carlo illustrò meticolosamente trentacinque cartoline di San Valentino.

Giunse il giorno di San Valentino e Carlo era fuori di sé per l'emozione. Le accatastò con cura, le mise nello zainetto e corse fuori. La madre decise di cucinargli il suo dolce preferito e farglielo trovare con una tazza di cioccolata calda per quando sarebbe tornato a casa da scuola.
Sapeva che sarebbe rimasto deluso e forse in questo modo gli avrebbe alleviato il dolore.
Avrebbe dato una cartolina a tutti, ma lui non ne avrebbe ricevuta nemmeno una. Quel pomeriggio preparò la torta e la cioccolata.
Quando udì il solito vociare dei bambini, guardò fuori della finestra. Stavano arrivando, ridendo e chiacchierando come al solito.
E come sempre l'ultimo era Carlo. Da solo.
Entrò in casa quasi di corsa e buttò lo zaino su una sedia. Non aveva niente in mano e la madre si aspettava che scoppiasse in lacrime.
«La mamma ti ha preparato la torta e la cioccolata», disse, con un nodo in gola. Ma lui quasi non sentì le sue parole. Passò oltre, il volto acceso, dicendo forte: «Neanche uno.
Neanche uno!».
La madre lo guardò incerta. E il bambino aggiunse: «Non ne ho dimenticato neanche uno, neanche uno».

«Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quel che mi ha dato» (Giovanni 6,39).
Neanche uno.

Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. I tronchi erano imponenti, solidi e tenaci. I due boscaioli usavano le loro asce con identica bravura, ma con una diversa tecnica: il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l'altro, senza fermarsi se non per riprendere fiato rari secondi.
Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro.
Al tramonto, il primo boscaiolo era a metà del suo albero. Aveva sudato sangue e lacrime e non avrebbe resistito cinque minuti di più.
Il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco. Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali!
Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi. "Non ci capisco niente! Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi tutte le ore?".
L'altro sorrise: "Hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma quello che non hai visto è che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia".
Il tuo spirito è come l'ascia. Non lasciarlo arrugginire. Ogni giorno affilalo un po':
1. Fermati dieci minuti e ascolta un po' di musica.
2. Cammina ogni volta che puoi.
3. Abbraccia ogni giorno le persone che ami e dì loro: "Ti voglio bene".
4. Festeggia compleanni, anniversari, onomastici e tutto quello che ti viene in mente.
5. Sii gentile con tutti. Anche con quelli di casa tua.
6. Sorridi.
7. Prega.
8. Aiuta qualcuno che ha bisogno di te.
9. Coccolati.
10. Guarda il cielo e punta in alto.
Un giovane indiano partì alla caccia di anitre selvatiche sulla riva di un fiume. Era armato solo di una fionda. Raccolse alcuni ciottoli sul greto e cominciò a scagliarli con tutta la sua forza. Mirava soprattutto agli uccelli che si fermavano incautamente sulla riva.
I sassi lanciati finivano con un tonfo nell'acqua profonda. Soltanto due ciottoli colpirono a morte due uccelli prima di finire anch'essi nella corrente.
Quando rientrò in città, il giovane aveva due anitre nella bisaccia e ancora uno dei ciottoli in mano.
Nei pressi del bazar, un gioielliere lo fermò con una esclamazione di sorpresa. "Ma è un diamante, quello che hai in mano! Vale almeno mille rupie".
Il giovane cacciatore impallidì e poi si disperò: "Ma che stupido sono stato! Ho usato tutti quei diamanti per uccidere degli uccelli... Se li avessi guardati bene ora sarei ricco, e invece la corrente li ha portati via!".
Ognuno dei nostri giorni è come un diamante prezioso. Ciò che conta è accorgersene e non sprecarlo per andare a "caccia".
C'erano una volta dieci contadini, che camminavano insieme verso i loro campi. Furono sorpresi da un improvviso uragano, che prese a squassare violentemente le piante e a flagellare la terra. Correndo in mezzo ai fulmini e alle raffiche di grandine, i dieci si rifugiarono in un vecchio tempio in rovina.
Il fragore dei tuoni era sempre più assordante, i lampi danzavano paurosamente sui pinnacoli del tempio. I contadini erano terrorizzati e cominciarono a dirsi, a mezza voce, che in mezzo a loro ci doveva essere un grosso peccatore, colpevole di aver fatto scatenare quella furia incontenibile, che li avrebbe annientati tutti.
"Dobbiamo scoprire il colpevole", suggerì uno, "e allontanarlo da noi".
"Appendiamo i nostri cappelli fuori della porta", disse un altro. "Quello di noi a cui appartiene il primo cappello che verrà portato via sarà il peccatore e lo abbandoneremo al suo destino".
Furono tutti d'accordo. A fatica aprirono la porta e in qualche modo attaccarono fuori i loro cappelli di paglia. Il vento ne ghermì uno immediatamente.
Senza alcuna pietà i contadini spinsero il padrone del cappello fuori della porta. Il poveretto, piegato in due per resistere al vento, si allontanò nella tempesta.
Aveva fatto pochi passi, quando sentì un boato tremendo: un fulmine spaventoso si era abbattuto sul tempio e lo aveva polverizzato con tutti i suoi occupanti.
Una volta, un cucciolo di leopardo si perdette nella steppa e un elefante, per caso, lo calpestò. Poco dopo il cucciolo fu trovato morto e la notizia fu portata al padre di lui.
"Il tuo piccolo è morto", gridarono al vecchio leopardo. "Lo abbiamo trovato nell'erba, giù nella valle". Il leopardo ruggì di dolore e di collera. "Chi l'ha ucciso? Ditemi chi l'ha ucciso, perché io mi possa vendicare".
"É stato l'elefante".
"L'elefante?".
"Sì, l'elefante".
Il vecchio leopardo si fece pensieroso, ma dopo un momento disse: "No, non è stato l'elefante. Sono state certamente le capre. Sono state le capre! Ma vedrete come mi vendicherò".
E il vecchio leopardo, infiammato di sacrosanta collera, corse sul colle dove pascolavano le capre e sbranò tutto il gregge.
Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante. Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell'uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua ed assillante.
Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: "Perché non va al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà".
Allora quell'uomo scoppiò in lacrime, dicendo: "Quel clown, sono io".
"C'è una cosa che mi preoccupa tantissimo... ed è: come faccio a capire quando è ora di recitare la mia parte? Quand'è che posso essere realmente me stessa? Io fingo perché spesso non me la sento di mostrarmi come sono, un po' come se questo non dovesse piacere agli altri. Non so, forse è una preoccupazione che tutti hanno, forse anche gli altri vorrebbero non dover sembrare sempre più furbi, più forti di quel che sono".
(April, 14 anni)
Oggi finalmente rilassati, abbandona paure e pu­dori e non essere che te stesso.
Un uomo molto ricco aveva tanti debitori.
Quando fu assai avanti negli anni, chiamò un giorno alcuni di quelli che gli dovevano più denaro e disse: “Se non mi potete restituire oggi quanto mi dovete e giurate solennemente di pagare i vostri debiti nella vostra vita futura, io brucerò le cambiali che mi avete firmato”.
Il primo debitore gli doveva una piccola somma. Giurò che nella vita futura avrebbe accettato di essere il cavallo del creditore e lo avrebbe portato in giro sulla groppa dovunque volesse andare.
Il vecchio accettò l’offerta e bruciò le carte con il suo debito.
Il secondo debitore doveva una somma più grossa e promise: “Io sono pronto a diventare nell’altra vita il tuo bue. Tirerò l’aratro per arare i campi e i tuoi carri di fieno e così pagherò il mio debito”.
Il vecchio accettò e bruciò le cambiali del secondo debitore.
Per ultimo toccò a un uomo che aveva un debito enorme.
“Per ripagare il mio debito – disse – nella vita futura sarò tuo padre”.
Il vecchio andò su tutte le furie, prese un bastone e stava per picchiare il debitore irriverente.
L’altro lo fermò e disse: “Lasciami spiegar prima di picchiarmi, il mio debito è enorme, non posso certo ripagarlo diventando solo il tuo bue o il tuo cavallo. Sono pronto ad essere tuo padre.
Così lavorerò giorno e notte per te, ti proteggerò quando sarai piccolo e veglierò su di te fino a quando sarai cresciuto. Affronterò qualsiasi sacrificio, rischierò anche la vita perché a te non manchi nulla, e alla mia morte ti lascerò tutte le ricchezze che avrò accumulato. Non è molto di più che farti da bue e da cavallo? Non è una buona proposta per pagare il mio debito?”.
Un uomo fu condannato a 20 anni di carcere. Il suo problema era ovviamente ammazzare il tempo.
Dopo alcuni mesi scoprì che alcune formiche risiedevano stabilmente sotto l'intonaco scheggiato della sua cella. Una di quelle formiche sembrava particolarmente dotata e il detenuto decise di ammaestrarla.
Ci volle un sacco di pazienza, ma dopo cinque anni la formica ubbidiva agli ordini, ballava su un capello ben teso e faceva il doppio salto mortale. Altri cinque anni dopo, la meravigliosa (e longeva) formichina sapeva cantare tutte le canzoni di Sanremo. Cinque anni dopo la formica parlava correttamente quattro lingue.
Stava per imparare la quinta quando l'uomo venne scarcerato. Si mise in tasca la preziosa formica nella speranza che gli servisse a guadagnare un mucchio di soldi esibendosi alla televisione.
Uscito di prigione, andò diritto in un bar e, dopo aver bevuto, non resistette alla tentazione di sfoggiare la bravura della sua formica. La posò sul bancone e chiamò il barista: "Guardi questa formica!".
Il barista, senza perdere un attimo di tempo schiacciò la formica dicendo: "La prego di scusarci signore".
Tanti genitori ed educatori dedicano anni di fatica e di passione per educare i loro ragazzi. Spesso basta un attimo e il risultato di tanti sforzi va in rovina. Perché c'è sempre un malaugurato "barista" dietro l'angolo. É meglio addestrare elefanti che formiche.
C'era una volta un celebre funambolo. Tutti riconoscevano la sua stupefacente abilità: nessuno ricordava di averlo mai visto vacillare o cadere.
Un giorno, il circo dove il funambolo lavorava si trovò in serie difficoltà finanziarie. Il direttore propose al funambolo di alzare il filo e di aumentare la distanza del percorso per attirare più gente.
I lavoratori del circo avevano posto tutta la loro fiducia nel loro funambolo ed erano sicuri di ottenere un successo strepitoso. Rivolgendosi ai suoi compagni di lavoro, il funambolo chiese loro: "Siete sicuri che ci riuscirò?". Tutti risposero: "Abbiamo fiducia in te e siamo assolutamente certi che ci riuscirai". L'esibizione del funambolo fu un grande successo. Ogni giorno la gente faceva la coda al botteghino del circo per assistere allo straordinario spettacolo di abilità e di coraggio.
Dopo un anno di successo, il direttore volle procurare al circo una maggiore risonanza e propose al funambolo una prestazione eccezionale per attirare ancora più gente. Propose di sistemare un cavo d'acciaio da una riva all'altra di una cascata vertiginosa e di invitare tutta la gente della regione, i giornalisti e le televisioni per quella
esibizione senza precedenti. Tutti i membri del circo rinnovarono la loro fiducia al funambolo. Questi non esitò e accettò la sfida.
Già pronto per la pericolosissima traversata sull'esile filo, chiese ancora una volta a tutti i compagni se erano sinceri nell'affermare una fiducia illimitata in lui. "Sì!", gridarono tutti senza eccezione. Il funambolo partì e l'impresa riuscì perfettamente, con tutti gli spettatori in delirio. Improvvisamente il funambolo alzò una mano e chiese di parlare.
"La vostra fiducia in me è grandissima", disse.
"Certo", proclamò uno del circo a nome di tutti.
"Allora, vi voglio proporre una prodezza ancora più straordinaria!".
"Magnifico! Dicci che cos'è. La nostra fiducia in te è sconfinata: qualunque cosa proponi, accetteremo!".
"Propongo di camminare con una carriola su questo cavo d'acciaio e di fare il viaggio di andata e ritorno. Siccome la vostra fiducia nella mia abilità è senza limiti, chiedo a uno di voi di salire sulla carriola per fare con me la traversata". Nessuno volle salire.
Gesù salì su una barca e i suoi discepoli lo accompagnarono. Improvvisamente sul lago si scatenò una grande tempesta, e le onde erano tanto alte che coprivano la barca. Ma Gesù dormiva. i discepoli si avvicinarono a lui e lo svegliarono gridando: "Signore, salvaci! Stiamo per morire!". Gesù rispose: "Perché avete paura, uomini di poca fede?" (Matteo 8,23-26).
Sei persone, colte dal caso nel buio di una gelida nottata, su un'isola deserta, si ritrovarono ciascuna con un pezzo di legno in mano. Non c'era altra legna nell'isola persa nelle brume del mare del Nord.
Al centro un piccolo fuoco moriva lentamente per mancanza di combustibile. Il freddo si faceva sempre più insopportabile.
La prima persona era una donna, ma un guizzo della fiamma illuminò il volto di un immigrato dalla pelle scura. La donna se ne accorse. Strinse il pugno intorno al suo pezzo di legno. Perché consumare il suo legno per scaldare uno scansafatiche venuto a rubare pane e lavoro?
L'uomo che stava al suo fianco vide uno che non era del suo partito. Mai e poi mai avrebbe sprecato il suo bel pezzo di legno per un avversario politico.
La terza persona era vestita malamente e si avvolse ancora di più nel giaccone bisunto, nascondendo il suo pezzo di legno. Il suo vicino era certamente ricco. Perché doveva
usare il suo ramo per un ozioso riccone?
Il ricco sedeva pensando ai suoi beni, alle due ville, alle quattro automobili e al sostanzioso conto in banca. Le batterie del suo telefonino erano scariche, doveva conservare il suo pezzo di legno a tutti i costi e non consumarlo per quei pigri e inetti.
Il volto scuro dell'immigrato era una smorfia di vendetta nella fievole luce del fuoco ormai spento. Stringeva forte il pugno intorno al suo pezzo di legno. Sapeva bene che tutti quei bianchi lo disprezzavano. Non avrebbe mai messo il suo pezzo di legno nelle braci del fuoco. Era arrivato il momento della vendetta.
L'ultimo membro di quel mesto gruppetto era un tipo gretto e diffidente. Non faceva nulla se non per profitto. Dare soltanto a chi dà, era il suo motto preferito. Me lo devono pagare caro questo pezzo di legno, pensava.
Li trovarono così, con i pezzi di legno stretti nei pugni, immobili nella morte per assideramento.
Non erano morti per il freddo di fuori, erano morti per il freddo di dentro.
Forse anche nella tua famiglia, nella tua comunità, davanti a te c'è un fuoco che sta morendo. Di certo stringi un pezzo di legno nelle tue mani. Che ne farai?
Capitò di smarrirsi a un povero viaggiatore che attraversava il deserto. Anche le sue scorte di cibo e di acqua si erano esaurite. Le forze gli vennero meno e si lasciò cadere sulla sabbia spossato. Riaprendo gli occhi, vide a una breve distanza le palme di un'oasi. Gli sembrò di sentire persino il gorgogliare di una sorgente. "É solo un miraggio", si disse disperato e si lasciò morire.
Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario, come si usava a quei tempi. Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole. Sul sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra. Qua e là degli uomini, seduti per terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione.
Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini. Lo guardò con compassione. Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si leggeva una fatica terribile. Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente.
"Che cosa fai?", chiese il pellegrino.
"Non lo vedi?" rispose l'uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo. "Mi sto ammazzando di fatica".
Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino.
S'imbatté presto in un secondo spaccapietre. Era altrettanto stanco, ferito, impolverato.
"Che cosa fai?", chiese anche a lui, il pellegrino.
"Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini", rispose l'uomo.
In silenzio, il pellegrino riprese a camminare.
Giunse quasi in cima alla collina. Là c'era un terzo spaccapietre. Era mortalmente affaticato, come gli altri. Aveva anche lui una crosta di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana serenità.
"Che cosa fai?", chiese il pellegrino.
"Non lo vedi?", rispose l'uomo, sorridendo con fierezza. "Sto costruendo una cattedrale". E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra grigia, puntate verso il cielo.
C’era una volta una famiglia serena e tranquilla che viveva in una piccola casa di periferia. Una sera i membri della famiglia erano seduti a cena, quando udirono bussare alla porta, il padre andò alla porta e l’aprì.
C’era un vecchio in abiti laceri, con i pantaloni strappati e senza bottoni. Portava un cesto pieno di verdura.
Chiese alla famiglia se volevano acquistare un po’ di verdura. Loro lo fecero subito, perché volevano che se ne andasse. Con il tempo, il vecchio e la famiglia fecero amicizia.
L’uomo portava la verdura per la famiglia ogni settimana.
Scoprirono che soffriva di cataratta e che era quasi cieco. Ma era così gentile che impararono ad aspettare con ansia le sue visite ed apprezzare la sua compagnia.
Un giorno, mentre consegnava la verdura, il vecchio disse: “Ieri ho ricevuto un grande regalo! Ho trovato fuori della mia casa un cesto di vestiti che qualcuno ha lasciato per me”.
Tutti quanti, sapendo quanto lui avesse bisogno di vestiti, dissero: “Meraviglioso”.
E il vecchio cieco disse: “Ma la cosa più meravigliosa è che ho trovato una famiglia che
aveva davvero bisogno di quei vestiti!”.
La gioia di dare è più forte della vita. È veramente povero solo chi non la prova mai.
Un giorno, uno dei più grandi professori, candidato al Premio Nobel, famoso in tutto il mondo, giunse sulle rive di un lago. Chiese ad un barcaiolo di portarlo a fare una passeggiata sul lago con la sua barchetta. Il brav’uomo accettò.
Quando furono lontani dalla riva, il professore cominciò ad interrogarlo. “Sai la storia?”. “No”. “Allora un quarto della tua vita è perduto”. “Sai l’astronomia?”. “No”. “Allora due quarti della tua vita sono perduti”. “Sai la filosofia?”. “No”. “Allora tre quarti della tua vita sono perduti”.
All’improvviso prese ad infuriare una tremenda tempesta. La barchetta, in mezzo al lago, veniva sballottata come un guscio di noce. Gridando sopra il ruggito del vento, il barcaiolo si rivolse al professore. “Sa nuotare?”. “No”, rispose il professore. “Allora tutta la sua vita è perduta!”.
Ci sono tante strade, di solito belle e seducenti, che portano alla morte. Una sola è la strada della vita. Quella di Dio. Non perdere mai di vista ciò che è veramente essenziale.
Un esploratore percorreva le immense foreste dell’Amazzonia, nell’America del Sud.
Cercava eventuali giacimenti di petrolio e aveva molta fretta. Per i primi due giorni gli indigeni che aveva ingaggiato come portatori si adattarono alla cadenza rapida e ansiosa che il bianco pretendeva di imporre a tutte le cose.
Ma al mattino del terzo giorno si fermarono silenziosi, immobili, l’aria totalmente assente.
Era chiaro che non avevano nessuna intenzione di rimettersi in marcia.
Impaziente, l’esploratore, indicando il suo orologio, con ampi gesti cercò di far capire al capo dei portatori che bisognava muoversi, perché il tempo premeva.
“Impossibile”, rispose quello, tranquillo. “Questi uomini hanno camminato troppo in fretta e ora aspettano che la loro anima li raggiunga”.
Gli uomini della nostra epoca sono sempre più rapidi. E sono inquieti, frastornati e infelici. Perché la loro anima è rimasta indietro e non riesce più a raggiungerli.
Un giovane era seduto da solo nell'autobus; teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Aveva poco più di vent'anni ed era di bell'aspetto, con un viso dai lineamenti delicati.
Una donna si sedette accanto a lui. Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente: «Sono stato in prigione per due anni.
Sono uscito questa mattina e sto tornando a casa».
Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore.
In quei due anni non aveva più avuto notizie di loro. Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare il viaggio fino al carcere dov'era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti per scrivergli. Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché
non riceveva risposta.
Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre. Aveva chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono.
Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell'autobus che lo avrebbe riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare.
Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni. Per rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che potesse essere visto dall'autobus. Se lo avevano perdonato e lo volevano accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo in giardino. Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull'autobus e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita.
Mentre l'automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco.
Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli: «Cambia posto con me. Guarderò io fuori del finestrino».
L'autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide l'albero. Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò: «Guarda! Guarda! Hanno coperto tutto l'albero di nastri bianchi».
Siamo più simili a bestie quando uccidiamo.
Siamo più simili a uomini quando giudichiamo.
Siamo più simili a Dio quando perdoniamo.
Marito e moglie erano sulle scale alle prese con un pesante cassettone. Li vide un cognato. «Vi do una mano», disse accorrendo. E afferrò un angolo del mobile.
Qualche minuto dopo, incapaci di muovere il cas­settone anche di un solo centimetro, i tre si concessero qualche minuto di riposo.
«Che fatica portare su questo cassettone!», com­mentò il cognato. Marito e moglie scoppiarono a ridere. «Noi stavamo cercando di portarlo giù!».
Gli amici non si guardano negli occhi. Guarda­no insieme nella stessa direzione. Una coppia di fidanzati chiese: «Cosa dobbiamo fare perché il nostro amore duri?». Rispose il maestro: «Amate insieme altre cose».

*La consolazione

Una bambina torna dalla casa di una vicina alla quale era appena morta, in modo tragico, la figlioletta di otto anni.
“Perché sei andata?” le domanda il padre.
“Per consolare la sua mamma”.
“E che potevi fare, tu così piccola, per consolarla?”.
“Le sono salita in grembo e ho pianto con lei”.

Se accanto a te c’è qualcuno che soffre, piangi con lui. Se c’è qualcuno che è felice, ridi con lui. L’amore vede e guarda, ode e scolta. Amare è partecipare, completamente, con tutto l’essere. Chi ama scopre in sé infinite risorse di consolazione e di compartecipazione. Siamo angeli con un’ala sola: possiamo volare solo se ci teniamo abbracciati.

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l'ordine di costruire una villa esemplare secondo un progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gradiva e non badare alle spese.
I lavori cominciarono ben presto. Ma, approfittando di questa cieca fiducia, il capomastro pensò di usare materiali scadenti, di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata.
Quando la villa fu terminata, durante una festicciola, il capomastro consegnò al Presidente della società la chiave d'entrata.
Il Presidente gliela restituì sorridendo e disse, stringendogli la mano: «Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza».

Questi tuoi giorni sono i mattoni della tua casa futura...

*La cosa più bella del papà  

Il papà chiede ad Alessio, 5 anni:
«Che cosa ti piace di più del papà?».

E Alessio, dopo aver riflettuto un po’:
«La mamma».

«Quand'è che ti accorgi che la tua famiglia va bene?» chiesero ad una bambina.
«Quando vedo il papà e la mamma che si danno i bacetti» rispose.
I genitori non devono nascondersi nell'armadio per darsi i bacetti. Ogni volta che manifestano l'a che li unisce, i bambini si sentono inondati di calda e gioiosa fiducia. Sanno bene che l'amore dei genitori è l'unica roccia solida su cui si possa costruire la loro vita.

Eravamo in due nello stesso scompartimento del treno. La giornata era fredda e piovosa. Dai finestrini si vedeva scorrere un paesaggio grigio e nelle stazioni i pochi passeggeri erano intabarrati in cappotti e sciarpe. Ma lo scompartimento era confortevolmente riscaldato e il ritmico sferragliare del treno conciliava una quieta beatitudine. Il passeggero che divideva lo scompartimento con me, invece, era stranamente inquieto. Ad ogni fermata del treno scattava in piedi, correva al finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione. Poi si sprofondava emettendo un sospiro da strappare il cuore. Dopo sette od otto stazioni, preoccupato gli chiesi: "C'è qualcosa che non va? Non si sente bene?". Con un nuovo desolato sospiro, rispose: " Non proprio. É che sto andando nella direzione sbagliata. Avrei dovuto cambiare treno già da molte stazioni. Ma si sta così bene e al calduccio, qui...".

*La lezione

Il bambino era appena stato scoperto a dire una bugia. Il padre, comprensivo e moderno, sapeva che quella bugia in particolare non era importante, ma lo era il concetto morale di mentire.
Così interruppe quello che stava facendo e si sedette insieme al figlio per spiegargli, con un linguaggio semplice, perché doveva sempre dire la verità, qualunque cosa accadesse, cascasse il mondo…
Squillò il telefono.
Il figlio che stava cercando di ingraziarsi il padre disse: “Vado io!”. E corse a rispondere al telefono. Ritornò poco dopo. “è l’assicuratore, papà”.
“Uffa! Proprio adesso? Digli che non ci sono”.

È così facile dare falsa testimonianza.

*La macchiolina nera
Una volta, un maestro fece una macchiolina nera al centro di un bel foglio di carta bianco e poi lo mostrò agli allievi. “Che cosa vedete?”, chiese. “Una macchia nera!”, risposero in coro. “Avete visto
tutti la macchia nera che è piccola piccola”, ribattè il maestro, “e nessuno ha visto il grande foglio bianco”.
Nel Talmud, che riunisce la saggezza dei maestri ebrei dei primi cinque secoli, è scritto: “Nel mondo a venire, ciascuno di noi sarà chiamato a rendere conto di tutte le belle cose che Dio ha messo in terra e che abbiamo rifiutato di vedere”. La vita è una serie di momenti: il vero successo sta nel viverli tutti. Non rischiare di perdere il grande foglio bianco, per inseguire una macchiolina nera.

*La Madre speciale

Vi è mai capitato di chiedervi come vengono scelte le madri dei figli handicappati?
In qualche maniera riesco a raffigurarmi Dio che dà istruzioni agli angeli, che prendono nota in un registro gigantesco.
“Armstrong, Beth, figlio. Santo patrono, Matteo…”.
“Forest, Marjoire, figlia. Santa patrona, Cecilia”.
“Rutledge, Carrie, gemelli. Santo patrono… diamo Gerardo. È abituato alla scarsa religiosità”.
Finalmente, passa un nome a un angelo e sorride: “A questa, diamole un figlio handicappato”.
L’angelo è curioso. “Perché a questa qui, Dio? È così felice”.
“Esattamente”, risponde Dio sorridendo. “Potrei mai dare un figlio handicappato a una donna che non conosce l’allegria? Sarebbe una cosa crudele”.
“Ma ha pazienza?”, chiede l’angelo.
“Non voglio che abbia troppa pazienza, altrimenti affogherà in un mare di autocommiserazione e pena. Una volta superati lo shock e il risentimento, di sicuro ce la farà”.

“Ma, Signore, penso che quella donna non creda nemmeno in Te”.
Dio sorride. “Non importa. Posso provvedere.
Quella donna è perfetta. È dotata del giusto egoismo”.
L’angelo resta senza fiato. “Egoismo? È una virtù?”.
Dio annuisce. “Se non sarà capace di separarsi ogni tanto dal figlio, non sopravviverà mai. Sì, ecco la donna a cui darò la mia benedizione di un figlio meno che perfetto. Ancora non se ne rende conto, ma sarà da invidiare.
Non darà mai per certa una parola. Non considererà mai che un passo sia fatto in comune. Quando il bambino dirà “mamma” per la prima volta, lei sarà testimone di un miracolo e ne sarà consapevole. Quando descriverà un albero o un tramonto al suo bambino cieco, lo vedrà come poche persone sanno vedere le mie creazioni.
Le consentirò di vedere chiaramente le cose che vedo io – ignoranza, crudeltà, pregiudizio -, e le concederò di levarsi al di sopra di esse. Non sarà mai sola, io sarò al suo fianco ogni minuto di ogni giorno della sua vita, poiché starà facendo il mio lavoro infallibilmente come se fosse al mio fianco”.
“E per il Santo patrono?”, chiede l’angelo tenendo la penna sollevata a mezz’aria.

Dio sorride. “Basterà uno specchio”.
(Erma Bombeck)

Un bambino aveva fatto la spesa per la mamma. Era stato preciso e attento. Il droghiere, per premiarlo, prese da uno scaffale una grossa scatola di caramelle, la aprì e la presentò al bambino.
“Prendi piccolo!”. Il bambino prese una caramella, ma il droghiere lo incoraggiò: ”Prendi tutte quelle che ti stanno in mano”. Il bambino lo guardò con i suoi grandi occhi. “Oh… allora, prendile tu per me!”.
“Perché?”. “Perché tu hai la mano più grande”.
Quando preghiamo, non misuriamo le nostre domande con la piccolezza della nostra fede. Ci ricordiamo semplicemente che la mano di Dio è più grande.

*La mano e la sabbia

Giorgio, un ragazzo di tredici anni, passeggiava sulla spiaggia insieme alla madre.
Ad un tratto le chiese: "Mamma, come si fa a conservare un amico quando finalmente si è riusciti a trovarlo?".
La madre meditò qualche secondo, poi si chinò e prese due manciate di sabbia. Tenendo le palme rivolte verso l'alto, strinse forte una mano: la sabbia le sfuggì tra le dita, e quanto più stringeva il pugno, tanto più la sabbia sfuggiva.
Tenne invece ben aperta l'altra mano: la sabbia vi restò tutta.
Giorgio osservò stupito, poi esclamò: "Capisco".
Dietro un'immaginetta della Madonna, dimenticata in un santuarietto di montagna, ho trovato la "Preghiera dell'accoglienza". Eccola:

Signore, aiutami ad essere per tutti un amico,
che attende senza stancarsi,
che accoglie con bontà,
che dà con amore, che ascolta senza fatica,
che ti ringrazia con gioia,
Un amico che si è sempre certi di trovare
quando se ne ha bisogno.
Aiutami ad essere una presenza sicura, a cui ci si può rivolgere quando lo si desidera, ad offrire un'amicizia riposante, ad irradiare una pace gioiosa, la tua pace, o Signore. Fa' che sia disponibile e accogliente soprattutto verso i più deboli e indifesi.
Così senza compiere opere straordinarie, io potrò aiutare gli altri a sentirti più vicino,
Signore della tenerezza.

*La mano

Un bambino aveva fatto la spesa per la mamma. Era stato preciso e attento. Il droghiere, per premiarlo, prese da uno scaffale una grossa scatola di caramelle, la aprì e la presentò al bambino.
“Prendi piccolo!”. Il bambino prese una caramella, ma il droghiere lo incoraggiò: ”Prendi tutte quelle che ti stanno in mano”. Il bambino lo guardò con i suoi grandi occhi. “Oh… allora, prendile tu per me!”.
“Perché?”. “Perché tu hai la mano più grande”.

Quando preghiamo, non misuriamo le nostre domande con la piccolezza della nostra fede. Ci ricordiamo semplicemente che la mano di Dio è  più grande.

*La Preghiera

La catechista interroga i suoi bambini sulla preghiera.  
"Vediamo: tu reciti le preghiere alla sera?".  
"Certo". - "E anche al mattino?". - "No!". - "Perché?".

"Di giorno non ho mica paura".

Spesso è solo la paura che ci fa pregare. Che umiliazione per noi e soprattutto per Dio! La preghiera è la semplicità dell'amore che parla.
Preghiera che fa sorgere il sole, preghiera che batte sul muro, qualunque sia il codice, preghiera che sa che dall'altra parte qualcuno ascolta.

*La scala

Un bambino giocava a "fare il prete" insieme ad un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare.
Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: "Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!".
Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all'altro di predicare.
A questo punto il bambino si imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: "Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio".

Se pensi che il mondo è fatto a scale, passi il tempo a sgomitare sui gradini, cercando di salire un po' più in alto.

In una giornata estiva molto calda, un bracciante agricolo ricevette l’ordine di vangare il giardino del suo padrone. Si mise a lavorare di malavoglia, e cominciò ad inveire contro Adamo che, a suo parere, era l’unico responsabile di ogni sfruttamento.
Le sue bestemmie e imprecazioni giunsero all’orecchio del padrone, il quale gli si avvicinò e gli disse: “Ma perché inveisci contro Adamo? Scommetto che al suo posto avresti fatto la stessa cosa”. “No di certo”, rispose il bracciante, “io avrei resistito alla tentazione!”. “Vedremo!” disse il padrone e lo invitò a pranzo. All’ora stabilita, il badilante si presentò in casa del padrone e questi lo introdusse in una saletta dove c’era una tavola imbandita con ogni ben di Dio. “Puoi mangiare tutto quanto vuoi” disse l’uomo al suo dipendente, “soltanto la zuppiera coperta al centro della tavola non la devi toccare finché non torno”. Il badilante non aspettò neppure un minuto: si sedette al tavolo e con il suo formidabile appetito cominciò ad assaggiare una dopo l’altra le leccornie che gli venivano servite.
Alla fine il suo sguardo fu magnetizzato dalla zuppiera. La curiosità lo fece quasi ammattire, tanto che alla fine non resistette più e, con la massima circospezione,
sollevò appena il coperchi che copriva la zuppiera. Saltò fuori un sorcio. Il badilante fece l’atto di acciuffarlo, ma il topo gli sgusciò di mano. Iniziò la caccia, mentre il giovane rovesciava tavoli e sedie. Il gran baccano richiamò il padrone. “Hai visto?” chiese, e ridendo lo minacciò: “Al tuo posto, in futuro, non imprecherei più a voce alta contro Adamo e il suo errore!”.
“Ma io no! Io sono diverso! Io non mi sarei certamente comportato così!”. “Quanto sei stupido! Dovevi fare così e così…”. Quanti modi per puntare il dito contro gli altri. Ma chi punta il dito contro un altro ne punta tre contro se stesso.
Sul tavolino da notte di una vecchia signora ricoverata in un ospizio per anziani, il giorno dopo la sua morte, fu ritrovata questa lettera. Era indirizzata al giovane infermiera del reparto.
«Cosa vedi, tu che mi curi? Chi vedi, quando mi guardi? Cosa pensi, quando mi lasci? E cosa dici quando parli di me?
Il più delle volte vedi una vecchia scorbutica, un po' pazza, lo sguardo smarrito, che non è più così lucida, che sbava quando mangia e non risponde mai quando dovrebbe.
E non smette di perdere le scarpe e calze, che do o no, ti lascia fare come vuoi, il bagno e i pasti per occupare la lunga giornata grigia.
È questo che vedi!
Allora apri gli occhi. Non sono io.
Ti dirò chi sono.
Sono l'ultima di dieci figli con un padre e una ma Fratelli e sorelle che si amavano.
Una giovane di 16 anni, con le ali ai piedi, so che presto avrebbe incontrato un fidanzato. Sposata già a vent'anni.
Il mio cuore salta di gioia al ricordo dei propositi fatti in quel giorno.
Ho 25 anni ora e un figlio mio, che ha bisogno di me per costruirsi una casa.
Una donna di 30 anni, mio figlio cresce in fretta, siamo legati l'uno all'altra da vincoli che dureranno. Quarant'anni, presto lui se ne andrà. Ma il mio uo veglia al mio fianco.
Cinquant'anni, intorno a me giocano daccapo dei bimbi.
Rieccomi con dei bambini, io e il mio diletto.
Poi ecco i giorni bui, mio marito muore. Guardo al futuro fremendo di paura, giacché i miei figli sono completamente occupati ad allevare i loro.
E penso agli anni e all'amore che ho conosciuto. Ora sono vecchia. La natura è crudele, si diverte a far passare la vecchiaia per pazzia. Il mio corpo mi lascia, il fascino e la forza mi abbandonano. E con l'età avanzata laddove un tempo ebbi un cuore vi è ora una pietra.
Ma in questa vecchia carcassa rimane la ragazza il cui vecchio cuore si gonfia senza posa. Mi ricordo le gioie, mi ricordo i dolori, e sento daccapo la mia vita e amo.
Ripenso agli anni troppo brevi e troppo presto passati. E accetto l'implacabile realtà "che niente può durare".
Allora apri gli occhi, tu che mi curi, e guarda non la vecchia scorbutica... Guarda meglio e mi vedrai».

Quanti volti, quanti occhi, quante mani incrocia ogni giorno. Che cosa guardiamo? Le rughe, le ostilità, i dubbi, le durezze. Se imparassimo invece a guardare i sogni, i palpiti, gli amori spesso così accuratamente nascosti?
Quand'ero adolescente - raccontava un uomo ad un amico - mio padre mi mise in guardia da certi posti in città. Mi disse: "Non andare mai in una discoteca, figlio mio".
"Perché no, papà?", domandai.
"Perché vedresti cose che non dovresti vedere".
Questo, ovviamente, suscitò la mia curiosità. E alla prima occasione andai in una discoteca.
"E hai visto qualcosa che non dovevi vedere?", domandò l'amico.
"Certo", rispose l'uomo. "Ho visto mio padre".
Un bambino in piedi sul letto nel suo pigiamino rosso punta il dito contro la mamma e fieramente dichiara: "In non voglio essere intelligente. Io non voglio essere beneducato. Io voglio essere come papà!". L'esempio non è uno dei tanti metodi per educare. E' l'unico.

*L’offerta

In una chiesa africana, durante la raccolta dei doni all’Offertorio, gli incaricati passavano con un largo vassoio di vimini, uno di quelli che servono per la raccolta della manioca.
Nell’ultima fila dei banchi della chiesa era seduto un ragazzino che guardava con aria pensosa il paniere che passava di fila in fila. Sospirò al pensiero di non avere assolutamente niente da offrire al Signore.
Il paniere arrivò davanti a lui.
Allora, in mezzo allo stupore di tutti i fedeli, il ragazzino si sedette nel paniere dicendo: “La sola cosa che possiedo, la dono in offerta al Signore”.

“Vi esorto dunque, fratelli, a offrire voi stessi a Dio in sacrificio vivente, a lui dedicato, a lui gradito. Ě questo il vero culto che gli dovete” (Lettera si S. Paolo ai Romani 12,1).

Una giovane coppia entrò nel più bel negozio di giocattoli della città. L'uomo e la donna guardarono a lungo i colorati giocattoli allineati sugli scaffali, appesi al soffitto, in lieto disordine sui banconi. C'erano bambole che piangevano e ridevano, giochi elettronici, cucine in miniatura che cuocevano torte e pizze. Non riuscivano a prendere una decisione. Si avvicinò a loro una graziosa commessa. "Vede", spiegò la donna, "noi abbiamo una bambina molto piccola, ma siamo fuori casa tutto il giorno e spesso anche di sera". "É una bambina che sorride poco", continuò l'uomo. "Vorremmo comprarle qualcosa che la renda felice", riprese la donna, "anche quando noi non ci siamo... Qualcosa che le dia gioia anche quando è sola". "Mi dispiace", sorrise gentilmente la commessa. "Ma noi non vendiamo genitori".
Un quindicenne la vede così:
Volevo latte
E ho ricevuto il biberon.
Volevo dei genitori
E ho ricevuto un giocattolo.
Volevo parlare
E ho ricevuto un televisore.
Volevo imparare
E ho ricevuto pagelle.
Volevo pensare
E ho ricevuto sapere.
Volevo una visione generale
E ho ricevuto un'ideuzza.
Volevo essere libera
E ho ricevuto la disciplina.
Volevo amore
E ho ricevuto la morale.
Volevo una professione
E ho ricevuto un posto.
Volevo felicità
E ho ricevuto denaro.
Volevo libertà
E ho ricevuto un'automobile.
Volevo un senso
E ho ricevuto una carriera.
Volevo speranza
E ho ricevuto paura.
Volevo cambiare
E ho ricevuto compassione.
Volevo vivere...
In una famosa fiaba inglese, la fortuna del giovane Jack dipende dal saper fare correttamente quello che gli chiede il padre. Jack, ingenuo e sempliciotto, non ce la farebbe mai se non arrivasse puntualmente in suo aiuto la giovane moglie. Ecco un brano della fiaba:
Poco tempo dopo, il padre disse a Jack che dovevano andare insieme a costruire il più bel castello che si fosse mai visto, per un re che voleva far sfigurare tutti gli altri con un castello fantastico.
Mentre camminavano verso il luogo dove avrebbero dovuto gettare le fondamenta, Gobborn il Savio disse a Jack: “Non potresti accorciarmi un po’ la strada?”.
Ma Jack guardò avanti e vide un percorso lunghissimo, così disse: “Non vedo proprio, padre, come potrei staccarne via un pezzo”.
“Allora non mi servi a niente, e farai meglio a tornare a casa”.
E il povero Jack tornò indietro, e quando lo vide sua moglie disse: “E allora, com’è che torni solo?”. E lui le raccontò cosa gli aveva chiesto il padre, e qual era stata la sua risposta.
“Che scemo”, disse l’arguta moglie, “se tu gli avessi raccontato una storia avresti accorciato la strada! Adesso ascolta questa che ti racconto io, poi raggiungi tuo padre e cominciala subito. Starti a sentire gli farà piacere, e per quando avrai finito sarete arrivati al posto delle fondamenta”.
Così Jack ce la mise tutta e raggiunse suo padre. Gobborn il Savio non disse neanche una parola, ma Jack si mise a raccontare, e la strada diventò più corta, come aveva detto sua moglie.
I nostri giorni spesso sembrano strade lunghe e magari in salita.
Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia. Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.
Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori. In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni. Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.
Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare. Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile... E i vigili del fuoco tardavano.
Ma ecco che lassù, in alto, s'aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente: "Papà! Papà!".
Il padre accorse e gridò: "Salta giù!".
Sotto di sé il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose: "Papà, non ti vedo...".
"Ti vedo io, e basta. Salta giù!", urlò, l'uomo.
Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.
Non vedi Dio. Ma Lui vede te. Buttati!
Un papà e il suo bambino camminavano sotto i portici di una via cittadina su cui si affacciavano negozi e grandi magazzini. Il papà portava una borsa di plastica piena di pacchetti e sbuffò, rivolto al bambino. "Ti ho preso la tuta rossa, ti ho preso il robot trasformabile ti ho preso la bustina dei calciatori... Che cosa devo ancora prenderti?".
"Prendimi la mano" rispose il bambino.
Quando Dio creò il papà cominciò disegnando una sagoma piuttosto robusta e alta.
Una angelo che svolazzava sbirciò sul foglio e si fermò incuriosito.
Dio si girò e l'angelo "scoperto" arrossendo gli chiese
"Cosa stai disegnando?".
Dio rispose "Questo è un grande progetto".
L'angelo annuì e chiese "Che nome gli hai dato?".
"L'ho chiamato papà" rispose Dio continuando a disegnare lo schizzo del papà sul foglio.
"Papà..." pronunciò l'angelo "E a cosa servirebbe un papà?" chiese l'angioletto accarezzandosi le piume di un'ala.
"Un papà" spiegò Dio "Serve per dare aiuto ai propri figli, saprà incoraggiarli nei momenti difficili, saprà coccolarli quando si sentono tristi, giocherà con loro quando tornerà dal lavoro, saprà educarli insegnando cosa è giusto e cosa no.".
Dio lavorò tutta la notte dando al padre una voce ferma e autorevole, e disegnò ad uno ad uno ogni lineamento.
L'angelo che si era addormentato accanto a Dio, si svegliò di soprassalto e girandosi vide Dio che ancora stava disegnando.
"Stai ancora lavorando al progetto del papà?" chiese curioso.
"Sì" rispose Dio con voce dolce e calma "Richiede tempo".
L'angelo sbirciò ancora una volta sul foglio e disse "Ma non ti sembra troppo grosso questo papà se poi i bambini li hai fatti così piccoli?"
Dio abbozzando un sorriso rispose: "É della grandezza giusta per farli sentire protetti e incutere quel po' di timore perchè non se ne approfittino troppo e lo ascoltino quando insegnerà loro ad essere onesti e rispettosi".
L' angelo proseguì con un'altra domanda: "Non sono troppo grosse quelle mani?".
"No", rispose Dio continuando il suo disegno "Sono grandi abbastanza per poterli prendere tra le braccia e farli sentire al sicuro".
"E quelli sono i suoi occhi?" chiese ancora l'angioletto indicandoli sul disegno.
"Esatto", rispose Dio "Occhi che vedono e si accorgono di tutto pur rimanendo calmi e tolleranti".
L'angelo storse il nasino e aggiunse "Non ti sembrano un po' troppo severi?".
"Guardali meglio" rispose Dio.
Fu allora che l'angioletto si accorse che gli occhi del papà erano velati di lacrime mentre guardava con orgoglio e tenerezza il suo piccolo bambino.

*Quanto guadagni in un'ora?    

Figlio: " Papà , posso farti una domanda?"
Papà : "Certo, di cosa si tratta?"
Figlio: " Papà , quanti soldi guadagni in un ora?"
Papà : "Non sono affari tuoi. Perché mi fai una domanda del genere?"
Figlio: "Volevo solo saperlo. Per favore dimmelo, quanti soldi guadagni in un ora?"
Papà : "Se proprio lo vuoi sapere, guadagno 100 dollari in un ora"

Figlio: "Oh! (con la testa rivolta verso il basso)
Figlio: " Papà , mi presteresti 50 dollari?"
Il padre si infuriò.
Papà : "La sola ragione per cui me lo hai chiesto era per chiedermi in prestito dei soldi per comprare uno stupido giocattolo o qualche altra cosa senza senso, adesso tu fili dritto per la tua stanza e vai a letto. Pensa al perché stai diventando così egoista. Io lavoro duro ogni giorno per questo atteggiamento infantile."
Il piccolo bambino andrò in silenzio nella sua stanza e chiuse la porta.
L'uomo si sedette e diventò ancora più arrabbiato pensando alla domanda della ragazzo. Come ha avuto il coraggio di farmi una domanda simile solo per avere dei soldi?
Dopo un ora o poco più, l'uomo si calmò, e cominciò a pensare:
Forse c'era qualcosa di cui aveva davvero bisogno di comprare con 50 dollari, non chiede dei soldi molto spesso.
L'uomo andò nella stanza del piccolo bambino e aprì la porta.
Papà : "Stai dormendo, figlio?"
Figlio: "No  papà , sono sveglio".
Papà : "Stavo pensando, forse sono stato troppo duro con te prima. È stato un giorno faticoso per me oggi e mi sono scaricato su di te. Questi sono i 50 dollari che mi hai chiesto".
Il piccolo bambino si sedette subito e cominciò a sorridere.
Figlio: "Oh, grazie  papà !"
Dopo, da sotto il suo cuscino ha tirato via delle banconote stropicciate. L'uomo vide che il bambino aveva già dei soldi, e inizio ad infuriarsi di nuovo. Il piccolo bambino iniziò lentamente a contare i suoi soldi, e dopo guardò il padre.
Papà : "Perché vuoi altri soldi se ne hai già"?
Figlio: "Perché non ne avevo abbastanza, ma adesso si".
"Papà, ho 100 dollari adesso. Posso comprare un ora del tuo tempo? Per favore vieni prima domani. Mi piacerebbe cenare con te."
Il padre rimase impietrito. Mise le sue braccio attorno al suo bambino e lo implorò di perdonarlo.

Questa è solamente una storia per ricordare a tutti noi che non bisogna sempre lavorare così duramente nella vita. Non ci rendiamo conto che il tempo ci scivola via tra le dita senza averne speso un po' con le persone più importanti della nostra vita, quelle vicino ai nostri cuori.
Ti ricorderai che 100 dollari valgono il tuo tempo con la persona che ami? Se noi morissimo domani, la società per cui lavoriamo ci potrà facilmente sostituire in qualche giorno. Ma la famiglia e gli amici che ci lasciamo dietro sentiranno la mancanza per il resto delle loro vite. E iniziamo a pensarci, noi mettiamo tutto ciò che abbiamo sul lavoro piuttosto che sulla nostra famiglia.
Alcune cose sono più importanti.

*Trenta consigli per genitori frettolosi  
Qualche semplice regola che può migliorare la vita familiare e l'educazione.
1. I primi anni di vita sono importanti: è in questo periodo che si posano le strutture fondamentali della persona.
2. I bambini sono persone con carattere, temperamento, bisogni, desideri, cambiamenti di umore proprio come voi. Lasciate che anche i vostri figli qualche volta diano in escandescenze.
3. I bambini imitano quello che fate voi. Non faranno mai quello che ordinate. Soprattutto non fate prediche. I bambini imparano solo quello che vivono.
4. I due genitori devono avere la stessa idea di educazione. Questo non significa che devono fare le stesse cose o apparire un muro di cemento armato.
5. Non entrate in conflitto con i vostri figli. Ogni volta che entrerete in conflitto con i vostri figli voi avrete già perso.
6. Siate pazienti. Anche con voi stessi. Nessuno ha mai detto che sia facile essere un genitore.
7. I genitori non sono i soli educatori: c'è anche la società in cui i figli sono immersi.
8. Dite "no". In questo modo i vostri figli sapranno che li proteggete anche dai loro errori. Insegnate ai vostri figli che non possono avere tutto e subito. È prudente, perciò, usare con cautela il sistema di assecondare: i bambini devono imparare a manovrare le frustrazioni, perché la vita dell'adulto ne è piena. È pura assurdità partire dal principio che il bambino sarà in grado di affrontarle quando sarà più grande; che cosa, infatti, c'è di magico nella crescita per fornire una capacità che si dovrebbe rivelare fin dai primi anni di vita?
9. Riservate del tempo per ridere insieme e divertitevi insieme. Vivete i vostri valori nella gioia. Se fate la morale tutto il giorno ai vostri figli verrà voglia di scappare.
10. Scambiatevi dei regali.
11. Imparate a relativizzare i problemi, ma risolveteli.
12. Accogliete in casa gli amici dei vostri figli.
13. L'incoraggiamento è l'aspetto più importante nella pratica di educazione del bambino. É tanto importante, che la mancanza di esso si può considerare quale causa fondamentale di certe anomalie del comportamento. Un bambino che si comporta male è un bambino scoraggiato.
14. Consentite ai vostri figli di non avere il vostro parere. E soprattutto ascoltateli veramente. Fa parte del nostro pregiudizio comune sui bambini pretendere di capire quello che vogliono dire senza in realtà ascoltarli. I figli hanno una diversa prospettiva e spesso soluzioni intelligenti da proporre. Il nostro orgoglio ci impedisce di ascoltarli.
Quante volte potremmo approfittare della loro sensibilità se li trattassimo alla pari e li ascoltassimo davvero.
15. Sottolineate i lati positivi dei vostri figli. I bambini non ne sono sempre coscienti. I complimenti piacciono a tutti, anche ai vostri figli.
16. Consentite loro di prendere parte alle decisioni della famiglia. Spiegate bene i motivi delle vostre scelte. Rispondete ai loro «perché».
17. Mantenete la parola. Siate coerenti. Attenetevi alle decisioni prese. Non promettete o minacciate a vanvera.
18. Riconoscete i vostri errori e scusatevi. Abbiate il coraggio di essere imperfetti e consentite ai vostri figli di esserlo.
19. Giocate con i vostri figli.
20. Quando dovete fare un "discorso serio" con i vostri figli, aspettate che siano in posizione orizzontale. Non fatelo mai quando sono in posizione verticale.
21. Ricordate che ogni bambino è unico. Non esiste l'educazione al plurale.
22. Alcuni verbi non hanno l'imperativo. Non potete dire: «Studia!», «Metti in ordine!», «Prega!» e sperare che funzioni.
23. Spiegate ai vostri figli che cosa provate. Raccontate come eravate voi alla loro età.
24. Aiutateli a essere forti e a riprendersi quando le cose vanno male.
25. Raccogliete la sfida della TV. La televisione non è tanto pericolosa per quello che fa quanto per quello che non fa fare.
26. Non siate iper/protettivi. Cercate le occasioni giuste per tirarvi indietro e consentire ai vostri figli di mettere alla prova la loro forza e le loro capacità.
27. Un bambino umiliato non impara nulla. Eliminate la critica e minimizzate gli errori. Sottolineando costantemente gli errori, noi scoraggiamo i nostri figli, mentre dobbiamo ricordarci che non possiamo costruire sulla debolezza, ma soltanto sulla forza.
28. Non giudicate gli altri genitori dai loro figli e non mettetevi in competizione per i figli con parenti e amici.
29. Date loro il gusto della lettura.
30. Raccontate loro la storia di Gesù. Tocca a voi.

*Tutta la forza

Il padre guardava il suo bambino che cercava di spostare un vaso di fiori molto pesante.
Il piccolino si sforzava, sbuffava, brontolava, ma non riusciva a smuovere il vaso di un millimetro.
“Hai usato proprio tutte le tue forze?”, gli chiese il padre.
“Sì”, rispose il bambino.
“No”, ribatté il padre, “perché non mi hai chiesto di aiutarti”.

Pregare è usare “tutte” le nostre forze.

1°. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull'amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori "per dovere". E l'educazione è sempre un "gioco di squadra". Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un'intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in "cambio", il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po' di spazio per sé.
2°. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa "voi siete il primo interesse della mia vita". Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l'assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l'aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E' anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.
3°. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa', alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo "coscienza" ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.
4°. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto "no", che è il modo migliore per comunicare: "ho cura di te".
5°. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l'ascolto, l'accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: "Qualunque cosa capiti, sono qui per te!". Di qui nasce nei figli quell'atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.
6°. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l'isola accogliente per i "naufraghi della giornata". E' fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d'incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell'affetto. Nel passato il padre era il portatore dei "valori", e per trasmettere i valori ai figli basta imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?
7°. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo " di fuori". Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l'attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.
8°. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: "Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand'ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L'amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni... Mi ha tolto l'affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo".
9°. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati, trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.
10°. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l'immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un'impronta indelebile.
Un’antica fiaba persiana racconta di un uomo che aveva un unico pensiero: possedere oro, tutto l’oro possibile. Era un pensiero vorace che gli divorava il cervello e il cuore.
Non riusciva così ad avere nessun altro pensiero, nessun altro desiderio per altre cose meravigliose.
Non si accorgeva delle persone, non badava al cielo azzurro o al profumo dei fiori. Un giorno non seppe resistere: entrò di corsa in una gioielleria e cominciò a riempirsi le tasche di bracciali d’oro, anelli o spille.
Naturalmente, mentre usciva dal negozio, fu arrestato. I gendarmi gli dissero: “Ma come potevi credere di farla franca?
Il negozio era pieno di gente”. “Davvero?”, fece l’uomo stupito. “Non me ne sono accorto. Io vedevo solo l’oro”.
“Hanno gli occhi e non vedono”, dice la Bibbia degli idoli falsi. Si può dire di tante persone, oggi. Sono abbagliati dal luccichio delle cose che brillano di più: quelle che la pubblicità quotidiana ci fa scorrere sotto gli occhi, come fossero il pendolino di un ipnotizzatore.
Una delle più belle poesie d’amore degli ultimi tempi è stata scritta da una ragazza americana. È intitolata: “Le cose che non ho mai fatto”. Eccola:
Ricordi il giorno che presi a prestito la tua macchina nuova e l’ammaccai?
Credevo che mi avresti uccisa, ma tu non l’hai fatto.
E ricordi quella volta che ti trascinai alla spiaggia, e tu dicevi che sarebbe piovuto, e piovve?
Credevo che avresti esclamato: “Te l’avevo detto!”. Ma tu non l’hai fatto.
Ricordi quella volta che civettavo con tutti per farti ingelosire, e ti eri ingelosito?
Credevo che mi avresti lasciata, ma tu non l’hai fatto.
Ricordi quella volta che rovesciai la torta di fragole sul tappetino della macchina?
Credevo che mi avresti picchiata, ma tu non l’hai fatto,
E ricordi quella volta che dimenticai di dirti che la festa era in abito da sera e ti presentasti in jeans?
Credevo che mi avresti mollata, ma tu non l’hai fatto.
Sì, ci sono tante cose che non hai fatto.
Ma avevi pazienza con me, e mi amavi, e mi proteggevi.
C’erano tante cose che volevo farmi perdonare quando tu saresti tornato dal Vietnam.
Ma tu non sei tornato.
Una regola d’oro:
Passeremo nel mondo una sola volta.
Tutto il bene, dunque, che possiamo fare o la gentilezza che possiamo manifestare a qualunque essere umano, facciamoli subito.
Non rimandiamolo a più tardi, né rascuriamolo, poiché non passeremo nel mondo due volte.
Il padrone di una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a cercare. Scorse un ragazzo di 16-17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo alto e magro, che non sembrava molto forte.
«Come ti chiami giovanotto?».
«Alfredo, signore».
«Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria. Ti intendi di lavori agricoli?».
«Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!».
«Che cosa?» chiese il contadino sorpreso.
«Io so dormire in una notte ventosa».
Il contadino scosse la testa e se ne andò.
Nel tardo pomeriggio, incontrò nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la medesima: «Io so dormire in una notte ventosa!».
Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire nelle notti ventose.
Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a lavorare nella sua fattoria. Così decise di assumere Alfredo che gli ripeté: «Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una notte ventosa».
«D'accordo. Vedremo quello che sai fare».
Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane.
Poi una notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i camini, scuoteva le finestre. Il contadino saltò giù dal letto. La bufera avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche, sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai.
Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte.
«Alfredo, alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!».
Ma Alfredo continuò a dormire.
Il contadino non aveva tempo da perdere. Si precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l'aia e raggiunse la cascina.
Ed ebbe una bella sorpresa.
Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate. Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere soffiati via. I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All'esterno il vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto era al sicuro.
D'improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa intendeva dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa.
Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva più.
Tu, riesci a dormire in questa lunga notte di vento che è la tua vita?
Quando sei preparato spiritualmente, mentalmente e fisicamente, non hai niente da temere.
Puoi dormire quando il vento soffia per la tua vita?
Il bracciante agricolo nella storia è capace di dormire perché ha messo al sicuro la fattoria contro la tempesta.
Assicuriamoci contro le tempeste della nostra vita trovando equilibrio e sicurezza nella Parola di Dio.
Non c'è bisogno di capire, dobbiamo solo stringere le sue mani per avere pace anche in mezzo alla tempesta.
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