Storia del Santuario dalle origini al 1879
*"La Nuova Valle di Pompei" - Capo I - Il primo giorno
Libro Secondo - Tale era la Valle di Pompei all’epoca in cui comincia la nostra storia. (pag.51)
Pensare che allora la locomotiva potesse discendere fino a questa triste Valle; pensare ad un ufficio postale, ad un telegrafo, ad una frequentissima stazione ferroviaria qui, sarebbe stata una follia!
Chi avesse detto o soltanto pensato pochi anni or sono: - Questa Valle fra qualche lustro sarà il teatro di grandi portenti nell’epoca nostra!
Questa Valle sarà scelta dalla regina del Cielo per mostrare i suoi prodigi al secolo decimonono! A questa Valle dopo poco tempo, accorreranno le genti da ogni parte del globo a piegare il ginocchio innanzi ad un’ara che sorgerà nel mezzo di essa! – Chi fosse stato ardito di far queste predizioni, avrebbe avuto meritatamente il titolo di folle. E pure tutto ciò è avvenuto.
Ricordo con precisione il giorno che posi il piede in questo piano luttuoso. Erano i primi di ottobre del 1872.
Qui mi recavo per rinnovare i fitti della grande masseria della famosa “Taverna di Valle”; giacché mia moglie, la Contessa de Fusco, non veniva quasi mai a vedere i suoi fondi. A quell’epoca non vi era neanche una stazione di Reali Carabinieri in Pompei. Si andava quindi sempre in pericolo di essere ricattati.
Come fui giunto alla stazione di Pompei, ecco presentarsi due dei nostri principali coloni, armati di fucile, per farmi scorta.
Mi è dolce oggi, dopo tanti straordinari avvenimenti, il ricordare gli umili principii che furono origine di tante cose grandi. E non è forse dolce cosa riandare alle origini delle opere di Dio? E il leggere care memorie e ciò che sovente può recar gusto insieme ed utilità alle anime nostre?
Ricordo, dunque, il primo dialogo che ebbi con quei fittaioli, divenuti in quel primo giorno mia salvaguardia.
Messici in cammino a piedi per la via Provinciale alla volta della Taverna di Valle ad un punto della strada, con aria indifferente mi rivolsi ad essi. E il dialogo che riporto, fatto tra mille interpunzioni, perché poco ci intendevamo, mi chiarì a prima giunta dello stato della terra, e dei suoi abitatori.
“Che c’è? Non si va sicuri neppure per questa via Provinciale? – Oh, quando venite con noi, - rispose l’uno con cera di bravura, - non avete a temere di nulla. – Ma che? Vi sono dei briganti? – Ohibò, briganti!... la campagna si è L'antica Chiesa Parrocchiale di Valle di Pompeisciolta dopo l’assenza di Pilone… - Assenza?... cioè morto, - risposi io. – Morto Pilone! – disse costui, facendo una smorfia. – Pilone non si lasciava trovare più… dicono che è morto: ma invece si è rifugiato dentro le montagne di Amalfi e di Agerola.
Io lo guardai meravigliato, compassionando la credulità di quella gente. - Ma se anche Pilone si è allontanato, se non è più qui; e perché armarci? – Eh, - ripetè colui con ironico sogghigno: - per i malandrini! – Malandrini! – ripresi io inarcando le ciglia. – Ladri sulla via principale? E i Carabinieri? – Non c’è caserma di Carabinieri. – E toccando con la destra il fucile che portava sulla spalla sinistra, continuò: - Noi stessi dobbiamo guardarci.
E in questo dire la nostra brigata giungeva allegramente a quel punto presso l’Anfiteatro, ove la via è incassata tra grossi cumuli di lapillo, e di macerie. – Eccoci al “passo di Valle”, - disse l’altro colono. – Qui bisogna stare sempre all’erta perché in questo luogo avvengono spesso furti e grassazioni. E qui si fece a contare quante persone egli conosceva, che erano state spogliate ed assalite in piena luce.
Ma quando fummo presso la Taverna della Valle, cioè alla vecchia parrocchia del SS. Salvatore: - Ecco, - mi disse, accennando con il dito ad una casa poco lontana, dietro la chiesuola, - là, la truppa una notte fece gran fuoco contro alcuni briganti che vi si erano rifugiati. Era una nottata d’inferno: diluviava e soffiava un vento impetuoso. Oh, quanto sangue vi fu sparso!
Questo breve racconto di una tragedia avvenuta ai giorni nostri presso l’Anfiteatro di Pompei, in vista di quell’Anfiteatro, che mi rammentava altro sangue umano sparso in altri tempi per diletto di cuori feroci, mi inondò di mestizia, e mi troncò quella serena gioia onde l’animo mio si era allietato nel discendere alla stazione di Pompei. (Autore: Bartolo Longo)
Libro Secondo (pag.54)
Eravamo giunti. I primi onori e la prima accoglienza ci furono tosto fatti dal padre di tutti quei contadini, cioè il Parroco, un vecchio asciutto, arzillo e rubizzo, con la sua brava sottana e corta zimarra che aveva sfidato parecchi lustri.
Or questo Parroco fu il primo con cui potei scambiare una parola in lingua intelligibile, poiché gli abitatori di questa contrada parlano il dialetto largo napoletano, ed io con la stretta pronunzia leccese, sicchè non ci intendevamo a vicenda.
Da lui seppi la prima volta l’antico nome di questa Valle, che s’intitolava “Valle Pompeja”, conforme egli stesso aveva argomentato dai fatti da noi innanzi esposti. Con lui discendemmo a visitare la sua chiesuola parrocchiale.
Quale spettacolo! Quella esile chiesetta, fabbricata col prezzo di una campana venduta, poiché gli abitanti erano pervenuti al numero di quindici, era così angusta e povera e mal tenuta, che lo zelante Vescovo di Nola, Monsignor Formisano, in sul cominciare del suo governo episcopale nella diocesi di Nola, obbligò il Parroco a vendere una parte dei poderi appartenenti alla Parrocchia per allungarla.
Ciò nonostante era sempre angusta ed insufficiente per la popolazione che andava ogni giorno crescendo; e laddove nel 1840 noveravansi appena trecento anime in tutta la moderna Valle, dopo trent’anni sommavano già il numero di oltre a milleduecento.
E la Chiesa parrocchiale conteneva appena cento persone Stivate.
Oltre di ciò non vi era né sacrestia, né sacrestano per la nettezza della Casa di Dio; eppure una cameretta per il Parroco, il quale abitava in una sua masseria, lontana due chilometri dalla Chiesa. E poiché questa era stata malfatta e mal tenuta, si fendè nella volta con il pericolo di crollamento.
Onde nel 1880 veniva diroccata per ragione di sicurezza pubblica con ordine del Sindaco di Torre Annunziata, che allora era il Cav. Ciro Ilardi.
Non vi era in questa chiesa che un solo altare, il maggiore, quello indispensabile per conservare il SS. Sacramento, ed era composto di vecchi assi. Perciò non deve recar meraviglia che topi, lucertole e scarafaggi vi avessero la loro pacifica dimora.
In verità, Mons. Giuseppe Formisano, nel suo paterno zelo, da più anni aveva tentato erigervi una chiesa: ma solo non poteva, sopraccarico come era della cura di settecento chiese fra cui ottantacinque parrocchie poverissime la più parte, e alcune in costruzione.
A più chiese aveva egli dato mano nella vastissima sua Diocesi, che annovera duecentomila anime disperse per valli e per monti in quattro provincie diverse. Aspettava che il Cielo arridesse alle sue lunghe preghiere.
Gli abitanti di questa contrada, tranne poche famiglie, sono addetti alla gleba, per lo più poveri: così scriveva il Parroco alla Curia di Nola.
Aggiungi, non vi erano scuole che dileguassero le tenebre dei rozzi intelletti; non vi era un tempio che potesse tutti adunarli e illuminarli con i principi salutari di nostra religione; neppure un altare consacrato a Maria, alla Madre di Dio, alla Consolatrice degli afflitti, che raccogliesse i sospiri di quegli infelici, e li confortasse all’ombra del suo materno celestiale manto.
Tale era lo stato ed il culto miserando dell’unica chiesa qui allora esistente.
Ma per quanto si sforzasse di provvedere a tanti bisogni lo zelante Vescovo, pure non poteva impedire che molti in questa Valle, per l’angustia della chiesa, non udissero la Messa le domeniche, né mai ascoltassero la parola di Dio; e quindi la più parte giaceva nella massima ignoranza dei principii di religione.
Ma quel che più stringeva il cuore per il dolore e per la compassione insieme, si era il vedere nelle domeniche e negli altri giorni festivi la pubblica inosservanza della legge di Dio sul terzo precetto del Decalogo.
Giovani e giovanette passare le ore intere o a lavorare come negli altri giorni, o stare in ozio, occasione d’ogni vizio; i fanciulli, la parte più gelosa dell’umana famiglia, dai quali usciranno un giorno il cittadino onesto o il ladro, abbandonati a se stessi, venir su negli anni come bruti.
Ma come si trovò in Pompei quella Immagine del Rosario, che oggi scuote il mondo con i suoi portenti, e per il quale è sorto un Tempio di tanto lusso e magnificenza? E perché e come mi sono trovato io, straniero, a queste contrade, in mezzo a tanti fatti straordinari che la Provvidenza ha disposti?
Lo dirò apertamente, sperando che farò bene ai miei prossimi. (Autore: Bartolo Longo)
Libro Secondo (pag.57)
Lettore mio, ti sei mai trovato con l’animo involto in un nuvolo di pensieri neri, tristi, che apportano noia, abbattimento, desolazione? Tu allora puoi comprendermi.
Uscito appena dalla selva oscura degli orrori, in cui mi ero smarrito come cultore del Magnetismo e dello Spiritismo, l’animo mio non trovava più pace.
A trentatré anni, lotte incessanti, aspre, implacabili con Satana, che suscitava furiose tempeste, mi avevano atterrato e costretto a mordere quel fango, dal quale la superba cervice soleva orgogliosamente insorgere contro Dio. E Dio a tal punto mi aspettava, affinché dove abbondava la iniquità ivi sovrabbondasse la misericordia. Un abisso chiamava un altro abisso.
Iddio è paziente e longamine, perché è forte: essendo onnipotente non si adira, né si vendica, perché tutto a lui è sottoposto. È dolce, di sua natura buono, giusto nel punire. Aspetta l’uomo a penitenza: ma poi lo condanna, se ostinato.
O grande Iddio! Chi ti mosse allora ad aspettarmi, si lungo tempo lontano da te, se non la bontà tua essenziale, poiché tutte le tue vie si riducono alla Misericordia ed alla Verità.
Alle mie ribellioni tu opponesti una infinita pazienza: ai miei allontanamenti, una dolcissima benignità: alle offese contro di te rivolte, i sospiri del tuo Cuore compassionevole, vivo, generoso e paterno. Alle mie infelici cadute finalmente stendesti la mano del soccorso. Tu vedesti la mia umiliazione e le mie pene, ed allora ebbe trionfo la tua misericordia: giacché, nelle umiliazioni tu ergi le montagne della tua grazia.
Ed il primo frutto di tua grazia fu l’ispirarmi un desiderio ardente, irrefrenabile, insaziabile di te, verità, luce, cibo, pace dell’uomo, tua creatura.
L’anima mia, dunque, cercava violentemente Iddio. Dio solo poteva, come unico centro, fissar l’intelletto fluttuante in un pelago di errori: Dio solo poteva saziare le inquiete voglie di un cuore dilacerato da tante e focosissime passioni.
Un giorno, correva l’ottobre del 1872, la procella dell’animo mi bruciava il cuore più che ogni altra volta, e m’infondeva una tristezza cupa e poco men che disperata.
Uscii dal casino De Fusco, e mi posi con passo frettoloso a camminar per la valle senza saper dove. E così andando, pervenni al luogo più selvaggio di queste contrade, che i contadini chiamavano Arpaja, quasi abitacolo delle Arpie.
Tutto era avvolto in quiete profonda. Volsi gli occhi in giro: nessun’ombra di anima viva. Allora mi arrestai di botto. Mi sentivo scoppiare il cuore. In cotanta tenebre d’animo una voce amica pareva mi sussurrasse all’orecchio quelle parole, che io stesso avevo letto, e che di frequente mi ripeteva il santo amico dell’anima mia, ora defunto: - Se cerchi salvezza, propaga il Rosario.
È promessa di Maria. – Chi propaga il Rosario è salvo! – Questo pensiero fu come un baleno che rompe il buio di una notte tempestosa. Satana, che mi teneva avvinto come sua preda, intravide la sua sconfitta e più mi costringeva alle sue spire infernali. Era l’ultima lotta, disperata lotta.
Con l’audacia della disperazione, sollevai la faccia e le mani al Cielo, e rivolto alla Vergine celeste: - Se è vero – gridai, - che Tu hai promesso a San Domenico, che chi propaga il Rosario si salva; io mi salverò, perché non uscirò da questa terra di Pompei senza aver qui propagato il tuo Rosario. Nessuno rispose: silenzio di tomba mi avvolgeva dintorno. Ma da una calma che repentinamente successe alla tempesta dell’animo mio, inferii che forse quel grido di ambascia sarebbe un giorno esaudito. Un lontano eco di campana giunse ai miei orecchi, e mi scosse: suonava l’Angelus del mezzodì. Mi prostrai e articolai la preghiera che in quell’ora un mondo di fedeli volge a Maria. Quando mi levai in piedi, mi accorsi che sulle guance era corsa una lacrima. La risposta del cielo non fu tarda. Queste pagine, o lettore, te la spiegheranno tra poco. Leggi e giudica. (Autore: Bartolo Longo)
Libro Secondo (pag.60)
Io, dunque, determinai con animo risoluto di promuovere con tutti i miei sforzi la devozione del Rosario in questa Valle desolata, dove, per arcane disposizioni di Provvidenza, già mi trovavo. Ma come fare? Come pervenire ad insegnare il Rosario a gente che viveva dispersa in casupole e masserie, senza avere neanche un luogo dove potessi raccoglierla almeno qualche ora la domenica?
Non c’era altra via che l’andare attorno per le abitazioni, e distribuire in dono corone e medaglie. Queste, infatti, date senza denaro, venivan prese volentieri, ed anche con ardente brama, perché, essendo di metallo sembravano di qualche valore.
Ma a che pro, se pochi sapevano a mala pena dire l’Ave Maria.
Nondimeno, trattando con questa gente mi avvidi, che avevano un culto innato ed una pietà profonda verso i morti.
Si lamentavano, infatti, che i cadaveri dei loro trapassati fossero, come spoglie bestie, portati al camposanto, senza che una fratellanza pia, siccome vedevano fare nelle vicine città, rivolgesse le preci di requie a quelle anime, e senza un ricordo anniversario che perpetuasse ai nipoti la memoria dei loro avi.
Mi parve questo un sentimento dal quale io potevo trarre del bene.
- Ecco l’istinto della immortalità dell’anima, - meditai in cuor mio. La pietà verso i defunti, la memoria imperitura che si vuol serbare di essi, le preci ed i suffragi, sono chiare manifestazioni, che in fondo all’anima dell’uomo, anche ignorante, Iddio ha scolpito il domma dell’immortalità dell’anima.
Presi speranza allora, che questo popolo disperso per la campagna, più agevolmente si sarebbe lasciato condurre a radunarsi per uno scopo che meglio gli andava a sangue.
Divisai quindi, per venirne a capo, che il primo passo per cattivarmi gli animi dovesse essere la “fondazione di una Confraternita del Rosario”, la quale intendesse dare pietoso accompagnamento ai morti e, per mezzo della recita del Rosario, a suffragare le anime. Ma l’ostacolo perenne si era il luogo dove radunare la Confraternita.
Era una bellissima giornata sul finire di ottobre, la quale invitava a uscire a diporto; ed io non avendo con chi conversare, andai a caccia.
Sotto quei lunghi filari di pioppi che costeggiano il fiume Sarno dalla parte del Regio Polverificio di Scafati, m’imbattei in un giovane cacciatore, alto, con gli occhiali d’oro e affabile. Fui oltremodo lieto quando seppi da lui medesimo che era un prete.
Egli era proprio della Valle, ed aveva nome Gennaro Federico. E seguitando insieme il cammino più oltre, a quattr’occhi gli manifestai la mia intenzione di volere formare una “Società del Rosario” fra i contadini, acciocchè si affratellassero insieme, e imparassero a dire la Corona, e prestassero assistenza e medicine ai fratelli infermi, e porgessero maritaggi alle donzelle povere, e dessero sepoltura ai morti fratelli.
- È molto difficile, - mi rispose: - questi contadini hanno perduto la fiducia in simili cose.
Con tutto ciò non mi scoraggiai: ma volli interrogarlo degli usi e dei costumi degli abitanti.
In fatto, assai appresi da lui dei costumi di questa terra; e, tra l’altro, la consuetudine delle feste popolari, e dei baccani e dei giochi e segnatamente delle “Arriffe”, a cui solevano accorrere tutte le donne del contado per la brama di guadagnare qualche anello d’oro, o qualche paio di orecchini.
- Eccolo, dunque, il mio primo espediente, - pensai tra me: - aprire una gran tombola, e distribuire per premi corone, medaglie, immagini, e quadretti della Vergine del Rosario. Così, nel giro di pochi anni, ogni persona sarà munita di una Corona ed ogni casa decorata dell’immagine del Rosario.
Disposi in cuor mio di fare il lotto insieme con una festa in onore della vergine del Rosario nel venturo mese di ottobre. A questo modo per mezzo delle funzioni, del panegirico, degli spari artificiali, dei giochi popolari e delle arriffe clamorose, rimarrebbe impresso nella loro mente, insieme con la festa, almeno il “nome” del Rosario, il titolo di Vergine del Rosario..
E determinai, che nell’ottobre del seguente anno 1873 avrei fatta la prima festa del Rosario in Valle di Pompei, e mi ci sarei apparecchiato un anno innanzi.
1. La prima festa del Rosario in Valle di Pompei nel 1873. (pag.63)
E così fu fatto.
Tornato in Napoli, mi posi a chiedere ad alcune pie donne di mia conoscenza medaglie, corone, abitini, ed immagini di qualunque Santo. E ne ottenni dalla Baronessa di Castro de Rosa, dalla signorina Caterina Volpicelli, (oggi Beata), dalla duchessa di Traetto e dalla signora Raffaella Piria. Altre ne comprai io, e con questo grosso fardello feci ritorno nell’ottobre del 1873 alla mia “nuova terra”.
Ma vi aggiunsi due altre cose. Mi era avveduto che l’immagine del Crocifisso non si vedeva che in qualche rara capanna; perché era consuetudine di questa gente comprare il Crocifisso solo quando si andasse a nozze. Oltre di questo caso, nessuno aveva neppure una rozza Croce sospesa al muro. Comprai dunque parecchie centinaia di crocifissi per capoletto. Oltre a questo, stabilii tra me stesso che quella festa non dovesse andar come va perduto il fumo degli spari dei mortaletti e di altri fuochi artificiali.
Parte principale della festa sarebbe per essere un gran lotto di un soldo per ciascuna polizzina. I primi cinque premi sarebbero gli oggetti di oro napoletano, cioè di grossa vista e di poco valore: un anello, un paio di orecchini, uno spillo aperto, e somiglianti. Altri ottocento premi sarebbero di crocifissi, corone e quadretti della Vergine del Rosario.
Ordinai per la festa dei fuochi artificiali e giuochi e la banda musicale di Pagani. Quando alle sacre funzioni, una Messa sarebbe cantata dal Parroco di Valle, che era D. Giovanni Cirillo, ora defunto, ed un forbito discorso sul Rosario sarebbe recitato dal mio amico e confessore, che fu il P. Alberto Radente, domenicano, da ma a bella posta ed a mie spese invitato.
Non avendo una immagine acconcia a far venerare, tolsi dal mio capoletto una litografia della Vergine del Rosario, che avevo comprata in Napoli e la esposi alla pubblica venerazione. E con questo apparato aspettai l’alba della “terza domenica di ottobre”.
Ma la contraddizione cominciò dal primo giorno che volli qui fare onorare la Madonna del Rosario.
Il mattino della festa, acqua a torrenti ed un uragano con fulmini e tuoni impedì non solo alla gente di accorrere alla piccola chiesuola parrocchiale,, ma anche la banda musicale di potere accostarsi a Valle di Pompei; e tenne il Parroco, i preti invitati, gli amici e noi imprigionati nella parrocchia, senza poter mettere capo fuori a causa del tempo dirotto. – Cominciamo male, - dicevo io tra me e me un poco amareggiato; - la Madonna pare non gradisca il fatto mio.
Ma poi mi sollevavo a questo pensiero: - da parte mia io non debbo fare altro che pregare il Rosario.
Se non che il mio sconforto si accrebbe quando, assistendo al forbito discorso che recitò il predetto mio confessore, con meraviglia mi avvidi che le sue parole erano assai poco comprese dalla gente qui raccolta, perché questi contadini non erano abituati ad ascoltare altri che non il proprio Parroco e nel proprio dialetto.
Parve dunque a me fiato sprecato e spese perdute.
2. Ottobre 1874. La seconda festa del Rosario in Valle di Pompei (pag. 65)
Pensai per il nuovo anno di premunirmi contro le avversità del tempo, lasciando per ogni famiglia un ricordo sensibile e devoto della festa del Rosario, cioè una bella corona ed un quadretto della Vergine.
E venuto l’ottobre del 1874, ordinai un altro grande lotto.
Era usanza in questi luoghi, allorquando avevasi ad invitare il popolo di mandare attorno per il contado un bando, il quale non si faceva da altri che da una donna ben nota per la sua voce forte e sonora.
Otto giorni prima mandai in giro per le contrade questa donna per pubblicare il bando della “festa del Rosario in Valle”; e per tre giorni continui io stesso di persona andai attorno per queste campagne per casolari e masserie, chiedendo un’offerta qualsiasi in derrate, cioè granturco e cotone, per festeggiare la Vergine del Rosario: Invitavo casa per casa gli abitanti a venire alla Parrocchia ed a godere in mezzo alla via provinciale dei grandi spettacoli, massime di una grandiosa tombola.
Dalla vendita del granturco e del cotone intendevo trarre due vantaggi: il primo di accrescere la sommetta che avevo disposto a spendere del mio; ed il secondo, il più importante, e che riuscì a meraviglia, fu quello di sollecitare questi villici a intervenire come “interessati” nella festa. Ed infatti non vi fu neppure uno che non venisse a goderla.
La festa riuscì alquanto splendida, si che questi villici si rassicurarono che io spendevo due volte tanto del mio proprio denaro.
Neppure in quell’ anno avevo un’immagine acconcia “del Rosario” da esporre alla pubblica venerazione. Per questa seconda festa del Rosario in Valle di Pompei esposi nella cadente chiesuola parrocchiale, sotto un baldacchino, un’altra litografia della Vergine che aveva attorno impressi in piccoli riquadri i quindici misteri. L’avevo comprata a Napoli dal cartolaio Altavilla; e la lasciai in chiesa, in memoria della festa, a quel reverendo Parroco.
Intanto, per non sgarrarla un’altra volta, pensai che nessuno meglio del parroco poteva predicare a questa gente per venire compreso. E però lo invitai a fare tre prediche al popolo per “spiegare il Rosario”, sperando che la parola del proprio pastore avesse a produrre un frutto più ubertoso di quello dell’anno precedente.
Ma neanche allora ottenni l’intento; perché il buon Parroco invece di predicare il ”Rosario”, predicò sulla “Salve Regina”.
Non pertanto, la festa, la clamorosa “arriffa”, i fuochi artificiali, lo sparo delle bombe e dei petardi, il suono fragoroso della grancassa della banda musicale, e i sollazzi pubblici, la corsa degli asini, la corsa nei sacchi, tutto riuscì di piena soddisfazione al mio novello popolo. Il quale, fatto come ogni altro popolino, si mostrava di prima diffidente e ritenuto con me; ma, dopo le feste di due anni, per le quali si fu rassicurato che io spendeva del mio a suo vantaggio, finì con l’essermi amico ed affezionato confidente.
Ma la festa, la predica, il lotto era come una fiumana che passava, senza rendere ubertoso il terreno.
Il Rosario non si era punto imparato da questa gente, e tanto meno compreso..
Fui sconfortato, ma non stanco. Io mi ero proposto non altro che la “propagazione del Rosario”: il frutto delle mie fatiche non aspettava qui.
Sparse le corone e le medaglie tra la povera gente, ed acquistata la fiducia di questa, volli discutere ponderatamente con sacerdoti provetti e dotti, del modo come rendere stabile la devozione del Rosario qui iniziata con buoni auspici.
Non altro espediente seppero suggerirmi, se non fondare “una Confraternita”, che sopperisse a tutti i bisogni di questo popolo nascente.
Ma questo era difficile. Come pervenire a tanto? Come radunare in santa “società” tutta questa gente dispersa per vaste contrade? Come indurla ad amore e fratellanza insieme, se vivevano disgregati e diffidenti l’uno dell’altro?
Dopo lungo discutere, forse per divina ispirazione, si venne in questa determinazione: cominciare dal far venire una sacra Missione, la quale, scuotendo le anime con la meditazione delle verità eterne, suscitasse in quei cuori incolti la speranza del perdono con la devozione a Maria, e segnatamente al suo Rosario.
Un giorno scesi alla stazione di Portici, e m’imbattei in un sacerdote, che mi parve dotto e zelante insieme, e interrogatolo, e saputo che egli era un missionario dei Sacri Cuori, fondazione del Ven. Errico di Secondigliano, gli aprii l’animo mio, siccome da più tempo il Signore mi ponesse il pensiero di far venire una Missione a Pompei. Quel degno sacerdote era della famiglia Genovese di Pagani, fratello di quella Filomena Genovese, terziaria francescana e domenicana, morta in concetto di santità.
Mi incoraggiò assai, e mi profferse; e da quel giorno tenni con lui stretta amicizia. E con l’animo fisso in questo pensiero, andavo studiando i modi per mettere ad attuazione quel disegno, che per me allora era arditissimo, essendo io ignaro delle cose della Chiesa, e secolare forestiero in questi luoghi, non conosciuto né dal Vescovo di Nola, né dal vescovo di Castellammare, e neppure dal Cardinale di Napoli, che era allora Sisto Riario Sforza, né da alcun Prelato delle circostanti diocesi.
Ma questo mio divisamento fu per allora attraversato dalla invidia di quel maligno, «Che pria volse le spalle al suo Fattore». (Autore: Bartolo Longo)
*Capo V "L’0ra della misericordia"
Libro Secondo (pag. 68)
Passato del tempo, senza mai smettere il mio proposito di ritentar la prova, mi rivolsi a nome della Contessa De Fusco alle pie signorine Raffaele Piria e Caterina Volpicelli, le quali già in questo mezzo avevano fatto rizzare un altarino di marmo qui nella decadente parrocchia, e demolito il vecchio altare di assi tarlate.
Venne anche qui a porgere conforto al mio divisamento il sacerdote D. Luigi Caruso, allora vicesegretario del Clero di Napoli, e poi canonico di quella Metropolitana; il quale, essendo amico del Vescovo di Castellammare di Stabia, che era Mons. Pedagna, a lui si rivolse per scelta di qualche santo sacerdote da far la Missione a Pompei.
Ma ciò non pertanto, dovettero trascorrere tre lunghi anni prima che potessi ottenere tre sacerdoti per la missione in questa plaga sconsolata; perché come ho detto, secolare io e forestiero in questi luoghi, non solo ignoravo il modo come si dovesse chiedere la missione ed a chi, massime volendola per mia privata devozione; ma non conoscevo neppure di nome il Vescovo di Nola, né altri vescovi delle vicine diocesi.
Ma quando il giorno della esecuzione dei divini consigli è giunto, non vi è ostacolo che possa opporsi alla volontà di Dio.
Venne l’ottobre del 1875.
Per accrescere sensibilmente la devozione alla vergine sotto il titolo a Lei più caro, portai da Napoli una statuina della vergine del Rosario, e la portai a Valle sulle mie braccia accompagnato dal degno sacerdote napoletano D. Carlo dei Baroni Pellegrino Schipani; e la collocai sotto un baldacchino della vecchia parrocchia.
Intanto andai io stesso attorno per gli abituri e casolari, per raccogliere i contadini alla festa, ed animarli a formare la Confraternita di Maria.
E la festa in onore del Rosario riuscì più gloriosa, per gli spari, per i giochi, per la grande “arriffa”, e per un solenne Vespro e Messa, cantati dal Parroco e dai preti di questa contrada.
Disposte così le cose, curai, innanzi tutto, di ripulire e racconciare la informe chiesuola per darle un aspetto venerabile, gettandovi dei colori per contrapporli alle enormi macchie prodotte dall’umido e dalle screpolature, e rinzaffandovi del calcestruzzo per distruggere le sedi pacifiche dei topi, delle lucertole, dei ragni e di altri animali.
Ed a far ciò, invitai un giovane di Pompei, Pasquale Matrone, figliolo del più vecchio nostro colono: a lui consegnai cinque chilogrammi di terra gialla, dieci chilogrammi di terra rossa, molta calce, biacca e nerofumo in quantità. È con questa enorme provvisione di colori, con un grosso pennello da imbianchino fu dipinta (ognuno immagini come) la vecchia chiesuola parrocchiale.
Ma già l’ora della misericordia per questo popolo era suonata. Il Vescovo di Nola, per mia inaspettata e buona ventura, quando le mie speranze erano quasi venute meno, diede la facoltà a tre santi sacerdoti per intraprendere la sacra Missione. E il giorno dei Morti, “2 Novembre del 1875”, - era di martedì – mi recai io stesso a Castellammare di Stabia a rilevare i tre avventurati Ministri, che erano predestinati primi a spargere la luce su questo popolo che giaceva nelle tenebre. I loro nomi sono scolpiti non solo nella nostra memoria, ma, che è maggior cosa, nel cuore materno di Maria.
Essi furono: il Rev.mo Canonico Santarpia di Lettere, il Canonico Don Giuseppe Rossi di Castellammare di Stabia, ed il sacerdote Don Michele Gentile, Missionario Apostolico, di Gragnano.
Con la Contessa De Fusco e con i suoi figliuoli facemmo un pregio di ospitarli nel nostro casino, l’antica Taverna di Valle, e servirli di persona; ed essi non disdegnarono prendere soggiorno in una delle stanze allora di fresco costruite.
Commovente spettacolo! Traevano a udire la parola di Dio vecchi e fanciulli, uomini e donne, non solo di questa, ma anche dalle vicine contrade; e, non entrando nella piccola chiesa, vedevansi stivati in mezzo della via provinciale, esposti a tutte le intemperie delle serate di novembre.
Udivi la sera, dopo la predica, per queste campagne, innanzi mute e solitarie, risuonare il dolce saluto a Maria, mentre gli abitanti, tornando a casa in vari capannelli, cantando il Rosario, si disperdevano per le vicine terre.
L’effetto mostrò la potenza del Rosario e il gradimento della celeste Regina! Tutti si riconciliarono con Dio, composero le liti, si rappacificarono insieme, e chiesero l’aggregazione alla Confraternita di Maria.
Era il giorno di domenica, 14 novembre 1875, quando venne a Pompei lo zelantissimo Vescovo di Nola, Monsignor Giuseppe Formisano, per somministrare il Sacramento della Cresima, come suol farsi, al termine degli esercizi spirituali. Fu quella la prima volta che io ebbi la ventura di conoscere da vicino quel venerando presule. Ed allora gli manifestai il desiderio, che da tre anni mi stava vivo in cuore, di erigere, cioè, in questa terra di Pompei, a mie spese, un altare alla Madre di Dio sotto il titolo del SS. Rosario per tenere sempre desto così bella devozione, tanto utile alle anime, tanto approvata dalla Chiesa e tanto benedetta da Maria.
Udito ciò quel santo Vescovo, ed informato dai tre mentovati Missionari dello stato lacrimevole di questa nascente popolazione, tocco il cuore da indescrivibile pietà, quasi con lacrime agli occhi, a me rivolto ed alla Contessa De Fusco, pronunziò queste memorande parole che furono “l’origine della grande Opera di Dio” in questo luogo: - Io credo mio dovere di erigere una chiesa che raccolga al culto divino tutta questa povera gente; e da più anni avevo posto ogni opera a trovare qui almeno una persona che mi porgesse aiuto, essendo questo il più lontano della Diocesi.
Ma ora che voi volete fare un altare al Rosario, io propongo invece che facciamo non un altare, ma una chiesa. Procurate degli Associati per un soldo al mese; e così voi raccoglierete delle somme da parte vostra, ed io dalla mia corrisponderò con un sussidio di lire cinquecento.
Questa proposta fatta a me, che dopo tre anni di sforzi non ero riuscito a rizzare un semplice altare o una confraternita tra questa gente poverissima, mi sembrò così strana e così eccedente le mie forze, che a prima giunta non feci buon viso. Anzi voltomi al Canonico D. Giuseppe Rossi: - Temo, - dissi, - che questo sia un astuto ritrovato del demonio, il quale per distogliere di fare il bene, propone l’ottimo; e sotto il pretesto di fare una chiesa, per la cui edificazione si richiedono chissà quanti anni, viene ad impedire l’attuazione della Confraternita del Rosario, la quale è già quasi disposta ed ordinata.
Ma quel degno ministro del Signore mi rispose: - Consiglio dei Superiori è voce di Dio. La vostra volontà è accetta a Dio; ma eseguire i consigli dei Superiori.
Ancora un’altra volta quel pio Vescovo di Nola, ritornato in Valle di Pompei due giorni dopo, e venuto sul nostro casino, ripeté il suo santo consiglio.
Erano le 10 del mattino del 15 novembre 1875.
Il Pastore della Chiesa di Nola, affacciato alla finestra della stanza di mezzo che guardava la vecchia chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, accennando con la mano al campo contiguo alla Parrocchia, in tono profetico esclamò: - Quello è il luogo, dove deve essere edificato un Tempio in Pompei.
Quel Vescovo fu veramente profeta. Ma egli non sapeva quel che dicesse.
In capo a 15 anni (1891) quel Tempio non ancora compiuto, era salito a fama mondiale e riceveva la solenne consacrazione per mano di un Delegato del Papa, l’Em.mo Cardinale Monaco La Valletta!
E in capo a diciotto anni (1894) quella chiesa iniziata per poveri contadini, riceveva la sanzione della sua universalità e della maggiore grandezza con il venire dichiarata dal Pontefice Leone XIII, Chiesa Pontificia, Santuario del mondo, di dominio della Sede di Pietro in perpetuo!
E al venticinquesimo anno (1901) dalla prima pietra di sua fondazione, il Santuario di Pompei, celebrando il suo “Primo Giubileo”, sarebbe stato compiuto e dichiarato “Basilica Pontificia” pari a quelle dell’alma Roma!...
Chi lo avrebbe pensato?
La Contessa in verità rifiutò il carico, allegando il dolore di un figlio morto da poco ed il pensiero della famiglia. Ma io, che miravo sempre al fine della lotta con Satana, senza guardare alle conseguenze della futura impresa, a lei rivolto proseguii: - Voi promettete al Vescovo di consentire, ed io farò per voi e per me. Ponete a mia discrezione la vostra firma, e mettete me in relazione con i vostri conoscenti, e la Madonna penserà al resto.
Se non che, il savio Prelato, Uomo di Dio, abbastanza istruito delle opposizioni che suol mettere il mondo e il demonio alle cose del Signore, massime alla edificazione dei tempii, rivolto a noi, aggiunse: - Voi volete fare una chiesa? Ma siete voi disposti ad essere chiamati ladri, briganti, e trascinati per le vie di Napoli quasi facinorosi e malfattori? Se siete a ciò disposti, voi compirete l’opera di Dio, perché Dio benedirà le vostre intenzioni, le vostre fatiche; altrimenti non concluderete nulla.
Queste parole autorevoli dell’Unto del Signore, del capo di questa Diocesi, ci suonano tuttavia nell’animo, e ci porgono coraggio nelle contraddizioni. Ed Egli, per nostro conforto, a noi le ripeteva ogni volta che veniva a visitarci in Pompei. Imperocchè vediamo l’Opera di Pompei, trionfare sempre meravigliosamente a dispetto dell’inferno, essendo Opera di Dio, e non dell’uomo.
Sì, lo confessiamo: non sarebbe mai stata in noi tanta presunzione, da cominciare la edificazione di un grande Santuario, in un’aperta e povera desolata campagna, senza la parola di autorità e di conforto di quel Santo Vescovo, che fin dal principio, quasi profeta, ci disponeva alle future contraddizioni, e senza il più saldo appoggio di Maria che rincalza e ci sostiene con gli incessanti suoi prodigi.
In tal modo, confortato da tanta autorità, mi misi all’opera. Prima di ogni altra cosa, valendomi del nome e delle relazioni della Contessa, scrissi immediatamente varie lettere a molte delle sue amiche, piissime dame napoletane, richiedendo il loro concorso di “un soldo al mese, per fabbricare un tempio cattolico al vero Dio sulla terra dei falsi dei”.
Ecco, come da un assedio di Satana alla povera creatura, il Signore fa discendere un rivo delle sue grazie per far mostra della sua potenza e della sua paterna pietà, che forma suo diletto il sollevare dal fango il misero, e togliere dal letamaio il reietto.
Ma oramai è tempo di dire come venne trovata questa “Immagine del Rosario”, divenuta oggi di fama universale per i suoi prodigi, ed in qual modo fu portata alla Valle sconsolata di Pompei. (Autore: Bartolo Longo)