Storia del Santuario dalle origini al 1879
*Capo I "Il primo ingresso della Immagine in Pompei"
Libro Terzo (pag.75)
I tre missionari, e segnatamente il reverendo P. Michele Gentile, cui aspettava di predicare il Rosario, avevano inculcato al popolo di recitare ogni giorno questa preghiera, tanto cara alla Vergine.
Sul finire della sacra Missione, dunque, io cominciavo a vedere compiute le mie speranze, e ne rendevo somme grazie a Dio.
Ma per istabilire a consuetudine di questo popolo la recita in comune della Corona, e per fare guadagnare le sante Indulgenze della Confraternita del Rosario, mi parve indispensabile porre in venerazione un quadro qualsiasi della Madonna del Rosario, innanzi al quale quella gente potesse ogni sera radunarsi per la recita della Corona.
Un quadro che rappresentasse il Rosario qui non vi era, tranne quello litografico, che come innanzi ho riferito, avevo io donato al vecchio Parroco.
Ma per essere un quadro esposto alla pubblica venerazione, e per potersi guadagnare le Indulgenze, conforme è ordinato nella liturgia ecclesiastica, esso deve essere dipinto ad olio.
Oltre di che, non voleva la missione fosse finita senza che prima non venisse esposta la devota effige, affinchè i tre Sacerdoti avessero lasciato al popolo, come ricordo della Missione, che dovesse ogni sera raccogliersi dinanzi a quella sacra Immagine e in comune recitare la Corona. Poiché questa era l’ultima meta che io vacheggiavo nel mio pensiero.
La Missione terminava la domenica, 14 novembre.
Era, dunque,
Era, dunque, necessario che io corressi a Napoli, per provvedermi di urgenza di una Immagine del Rosario dipinta a olio.
E mi recai a Napoli il mattino di sabato, giorno indimenticabile, “13 novembre” di quello stesso anno ricordevole, 1875.
Cominciai a pensare e discorrere con me stesso, a chi rivolgermi per acquistare il quadro che mi bisognava.
E ricordai che, passando per Via Toledo, presso la piazza dello Spirito Santo, avevo spesse volte gettato lo sguardo dentro la bottega nella quale erano esposti vari quadri e ritratti d’olio, e tra gli altri mi pareva d’aver veduto una Vergine del Rosario. Il pittore era a me ignoto, anche di nome: ma per l’aggiunto che gli si apponeva, forse dalla sua città nativa di Foggia, era comunemente chiamato il Foggiano.
Colà, dunque, determinai di andare. Se non che mi prese un certo timore di trovarmi in impaccio, non essendo stato mai buono a litigare i prezzi e discendere a patti come si usa a Napoli. – Oh, se io potessi condurre meco il P. Radente? Sapevo che il buon Padre da dieci anni, da che furono espulsi i Frati da S. Domenico Maggiore, conviveva con due suoi confratelli, in un casetta tolta a pigione: sapeva pure che egli era uso celebrare la Messa tutte le mattine nella Chiesa del Rosario a Porta Medina. – Sta bene, - dissi in cuor mio: mi avvierò per Toledo: se vuole Iddio, incontrerò il mio amico: altrimenti farò da me.
Ma la Provvidenza, che con mano invisibile guidava le file di un avvenimento che sarebbe stato indi a poco straordinario, volle che, giunto al Largo dello Spirito Santo, poco lungi dallo studio del pittore, m’imbattessi nel venerando Frate.
Codesto santo Frate fu l’uomo a me mandato da Dio nel mezzo della mia vita burrascosa. Altrove dirò, per gratitudine, qualche cosa su di lui e delle virtù sue; e come fu da me conosciuto.
Oggi dico solo che c’incontrammo nell’esilio di questa vita nel 1865; e nell’anno 1885 ci separammo quaggiù. Ma nell’epoca di mezzo e precisamente nel 1875, accadde quel che ora dirò.
L’intimità, della quale mi onorava il Padre Radente, mi fece correre con il pensiero a lui, nel dover comprare un quadro, al quale, come ho detto, io non sapevo apporre il giusto prezzo. – Oh, Padre! – gridai tosto che l’ebbi veduto – per buona ventura v’incontro.
E gli esposi tutto per ordine quanto era accaduto in quei giorni a Pompei, e della venuta del Vescovo di Nola, e del disegno di edificare una Chiesa, e di stabilirvi una Confraternita del Rosario, e finalmente del quadro che io volevo comprare. – Lo studio del Foggiano è qui vicino: - osservò il Frate: - andiamo.
E vi entrammo insieme.
Era in quella stanza terrena una tela della Vergine del Rosario, ma senza misteri attorno e di piccola misura: non raggiungeva forse un metro. – Quanto costa quel quadro? – Quattrocento lire. – È troppo veramente! – esclamò il Padre.
Io forse mi sarei piegato a comprarlo; ma il Padre, ammiccandomi: - Usciamo fuori.
E quando fummo sulla via: - Perché spendere quattrocento lire, - soggiunsemi, - per un piccolo quadro, quando tu ora hai l’intenzione di sostenere le spese di una nuova chiesa? Sai che mi è passato per la mente, ora che eravamo là nella bottega del Foggiano? Porta Medina
Io diedi da più anni a Suor Maria Concetta De Litala, nel Conservatorio del Rosario a Porta Medina, un vecchio quadro del Rosario, che comprai da un rivendugliolo in mezzo alla via della Sapienza. Tu va a vederlo. Se ti piace, e ti pare che possa servirti, logoro com’è, chiedilo a lei, perché ella di certo te lo darà. È vero che è un quadro di nessun valore: lo comprai per otto carlini (3,40): ma tanto basterà per la recita del Rosario ai contadini di Pompei.
Difilato corro al Conservatorio di Porta Medina. – Desidero parlare a Suor Maria Concetta De Litala,, - gridai io di fuori della grata del parlatorio.
Pochi istanti e vidi scendere la suora, che da più tempo conosceva. – Il P. Maestro Radente mi manda a voi, affinché, se vi piace, mi diate quel vecchio quadro della Madonna del Rosario che egli vi diede. Sappiate che a Pompei i poveri contadini non dicono il Rosario perché non hanno l’immagine; e questa sera debbo portarla, affinché i Missionari la mostrino al popolo, che la Missione è finita.
Quella fervorosa terziaria, che era veramente una santa donna, oggi passata al gaudio di eterna vita, - Sono contenta, - ripeté: sono assai contenta che quell’abbandonato quadro debba servire per si bella occasione. Vado subito a prenderlo.
Pochi minuti dopo vedo discendere la buona Suora con il quadro.
Ohimè! Provai una stretta al cuore al primo vederlo. Era non solo una vecchia e logora tela, ma il viso della Madonna, meglio che di una vergine benigna, tutta santità e grazia, pareva piuttosto quello di un donnone ruvido e rozzo. – Chi mai dipinse questo quadro? Misericordia! – non potei trattenermi dall’esclamare con un’aria tra lo spavento e lo sconforto. In cuor mio sentivo che i poveri pompeiani assai malagevolmente si sarebbero disposti a devozione rimirando quella brutta immagine.
Oltre alla deformità e spiacevolezza del viso, mancava pure sul capo della Vergine un palmo di tela; tutto il manto era screpolato e roso dal tempo e bucherellato dalla tignola, e per le screpolature erano distaccati e caduti qua e là brani d colore.
Nulla è a dire della bruttezza degli altri personaggi. S. Domenico a destra sembrava non già un Santo, ma un idiota da trivio; ed a sinistra era una S. Rosa, con una faccia grossa, ruvida e volgare come una contadina, incoronata di rose.
Anche il concetto storico era sbagliato in quel dipinto. La Regina del Rosario vi era rappresentata seduta e senza diadema in capo: ed in luogo di porgere il Rosario a S. Domenico, come è di storia, lo dava a S. Rosa: e per contrario il Bambino è quegli che consegnava la corona al Patriarca Gusmano.
Stetti in forse se lasciarlo stare, oppure portarlo così in quella distretta. Mi crucciava il pensiero che la Missione era sul finire, e quella sera stessa avevo promesso ai tre Missionari ed al popolo il quadro del Rosario.
E tutti sapevano che ero venuto a bella posta in Napoli per acquistarlo, e lo aspettavano al mio ritorno. Come comportarmi? – Non ci fate troppe riflessioni, - disse con dolce accento di rimprovero la pia suora. – Portatevi il quadro ora stesso: sarà sempre buono a fare che innanzi ad esso si reciti un’Ave Maria.
Costretto dalla necessità, ma non certo di buon animo, acconsentii. Ma come portarmelo? Ecco un altro intoppo. La grandezza di esso, largo un metro ed alto un metro e quaranta centimetri, eccedeva lo spazio concessomi dalle vetture della ferrovia.
Né io potevo metter tempo in mezzo ad ordinare scatole per mandarlo altrimenti, avendo già deliberato, come ho detto, di portarlo allora con me. – Ma via, portatelo con voi, - soggiungeva santamente insistendo la suora; che fa che andate in piedi nel vagone? Portate la Madonna!...
Ma questa proposta, che per attuarsi esigeva che io andassi sul treno in “quarta classe”, ritto in piedi, e tenendo il quadro, non mi andava a sangue.
Sopraggiunse la Contessa, mia moglie, in portineria; e la buona suora, accesa in volto, quasi donna ispirata: - Voi dovete portarlo con voi questo quadro, - le disse: - ed in questo momento.
E la Contessa, per tenerla contenta, si fece dare il quadro, ravvolto alla meglio in un lenzuolo. E così in carrozza lo portammo a casa nostra, che allora era in via Salvator Rosa N. 290. Ma il difficile era farlo pervenire la sera stessa a Valle di Pompei.
Pensando a ciò, mi venne in mente che in quel giorno il carrettiere di Pompei, a nome Angelo Tortora, (unico che faceva i viaggi da Napoli a Valle) doveva tornare colà con il suo carico. Egli soleva vuotare del letame le stalle dei signori di Napoli e venderlo per la campagna.
Mandai per lui.
Angelo Tortora a quell’ora aveva già riempito il suo carretto, ed era sulle mosse di partire per Pompei. Avuta la mia imbasciata, corse di tutta fretta a casa nostra. – Angelo, - gli dissi: - tu mi farai il piacere di portare oggi stesso alla Parrocchia di Valle questo quadro, perché domani, domenica, i Padri Missionari debbono esporlo in chiesa ed introdurre nel popolo per la recita del Rosario ogni sera. Subito che sarai giunto a Valle di Pompei, lo consegnerai ad uno dei tre Missionari.
Angelo Tortora è proprio quello che ebbe parte nelle mie fatiche dei primi anni. Era uno dei capi di tutti i coloni della Valle, e dei più ricchi. Grande nella persona, tarchiate le membra e le spalle quadrate, di voce forte e sonora, era uso di parlare sempre alto, come parlasse ai sordi.
Di lui mi ero valso più volte per farmi accompagnare, allorchè andavo attorno per la campagna in accatto di granturco e di cotone per le mie feste del Rosario e per le clamorose arriffe. Egli montato su di un pancone in mezzo della via provinciale, rimpetto alla Parrocchia, sotto il casino De Fusco (l’antica Taverna), con la sua voce sonora, sorteggiava la famosa lotteria, e nella sua ruvida impostatura chiamava a nome tutti i vincitori degli anelli, dei crocifissi e dei quadretti, che distingueva uno per uno in mezzo ad una folla stivata per la via.
Era dunque colui il mio uomo, e non se lo fece dire due volte. – Sta bene, - mi rispose. – E preso il quadro, andò via.
E così, mentre l’Immagine era in cammino per la strada provinciale alla volta di Pompei sul carretto di Angelo Tortora, io correvo alla stazione ferroviaria per precedere il suo arrivo.
Ma qua fu il rincrescimento che provammo, quando giunti la sera a Valle di Pompei, sapemmo che il Tortora aveva portato il quadro, non altrimenti che alloggiandolo al di sopra del letame, di cui aveva già caricato il suo carro! Egli volenteroso di servirmi, non aveva saputo fare altrimenti. Pure quando lo chiamai per pagarlo, il brav’uomo non volle la vettura, dicendo bastargli aver condotto una Immagine della Madonna.
Poveretto! Non avrebbe mai creduto che il suo nome sarebbe apparso in questa storia, che durerà quanto il Santuario della Vergine di Pompei. Speriamo che oggi in cielo la Vergine Beata lo rimuneri di quel che operò per il suo tempio.
Or chi avrebbe creduto possibile che quella vecchia tela, pagata poco più di tre lire, e che faceva allora il suo ingresso in Pompei sopra un carro di letame, era nei disegni della Provvidenza ordinata ad istrumento di salvezza di innumerevoli anime?
E che sarebbe diventata così preziosa, da essere incoronata di fulgissimi brillanti e di rare gemme? E poco appresso sarebbe sollevata sopra un ricchissimo trono in un tempio monumentale eretto apposta per essa? E che avrebbe chiamato ai suoi piedi non solo i poveri contadini di Pompei a recitare il Rosario, ma una folla di adoratori e di pellegrini di tutte le nazioni, divenendo ad un ora centro di religione, di civiltà, di gloria?
E che avrebbe attirato l’attenzione e l’affetto del sommo Capo di tutta la cristianità da sospingerlo a dichiarare suo il Santuario di Pompei, rendendolo Pontificio sotto l’immediata giurisdizione del successore di Pietro?
Oh, se l’avessimo potuto vaticinar noi!... se l’avessero saputo quanti sono oggi figli prediletti della Regina di Pompei che corrono ad offrirle insieme con le suppliche l’obolo della gratitudine, da Malta, da Madrid, da Liverpool, da Coblenza, da Bruxelles, da Varsavia, da Vienna, da Blois, dalla Svizzera, dall’Africa, dall’Oceania, per nulla dire dell’Italia nostra a nessuna seconda in onorarla! Oh! Se avessimo potuto indovinare quel sublime arcano! Saremmo corsi a toglierla da quel sudiciume: e recatala sulle nostre braccia, avremmo voluto portarla a questa Valle abbandonata fra una pioggia di fiori e tra gli osanna di mille voci esclamanti: - Benedetta Colei che è mandata dalla Misericordia del Signore! (Autore: Bartolo Longo)
*Capo II - (Il 1° restauro del quadro della Vergine)
Libro Terzo (pag. 83)
Giunto in Pompei il Tortora con il carretto, sull’Ave Maria della sera, aveva subito deposto il quadro aspettato nella cadente chiesuola parrocchiale consegnandolo ad uno dei tre Missionari.
Erano presenti Varie persone, tra cui ricordiamo i tre mentovati Missionari, il vecchio Parroco, i sacerdoti fratelli Gennaro e Romualdo Federico, la famiglia della Contessa De Fusco ed altri.
Ma come venne rimosso il lenzuolo che avvolgeva il quadro, e scoperta quella Immagine, nessuno poté frenare un certo sorriso, vedendo quel vecchio imbratto che io avevo portato da Napoli per metterlo in venerazione.
Tutti furono d’accordo nel giudicare che, così come era il quadro, non poteva esporsi in chiesa.
Per quella sera del 13 novembre dunque dovetti rassegnarmi a vedere il frutto della mia gita posto in un canto dietro l’altare della parrocchia.
Il giorno dopo ci raccogliemmo tutti in consiglio nella chiesetta. Era indispensabile un restauro della tela; ma non c’era tempo per rimandarla a Napoli a farla ritoccare: né quel vecchio ciarpame pareva meritasse la spesa di un quattrino. – Io conosco un pittore. – saltò fuori il vecchio Parroco D. Giovanni Cirillo – che ritrae le vedute di Pompei e lavora nell’Anfiteatro, il signor Giglielmo Galella.
Egli è un buon cristiano e mio penitente. Forse non gli si pagherà nulla, o quasi ben poco, quando udrà la cosa. Mandiamo per lui.
Ed il giorno dopo venne il pittore Galella.
Costui, veduto ch’ebbe il quadro, richiese tempo a farvi i risarcimenti: trattavasi di appiccarvi su brani di colore e La prima figura ritratta dal Dolfino di Napoli sulla primitiva deforme e lacera Immagine della Vergine del Rosario.di vernice staccati e perduti. – Questa Immagine – io gli dissi – si è avuta in dono, per introdurre qui la devozione del Rosario tra poveri contadini. Non vi è quindi né Confraternita né Parrocchia che possa sostenere le spese di un ritoccamento. Io spenderò volentieri del mio. Però badate: questo quadro non costa che otto carlini!... io ve ne darò trenta, cioè L. 12,75, se voi lo porrete in istato di esporlo in chiesa.
Il pittore mi profferse devoto, e portò con sé il quadro.
La missione era finita. I tre buoni sacerdoti avevano fatto ritorno alle loro case, oltre misura contenti nei loro cuori di aver raccolta abbondantissima messe nel campo del Signore.
Per buona sorte questi contadini, fatti docili alle voci dei Missionari, seguitavano a convenire ogni sera alla Parrocchia per recitare la corona dinanzi alla mia piccola Immagine in litografia, esposta nella famosa festa, del 1874. Non volli per tanto mi sfuggisse l’occasione di quel fervore, per istabilire la tanto sospirata Confraternita del SS. Rosario, acciocchè immantinente, come fosse venuta l’Immagine ogni aggregato cominciasse a godere delle Indulgenze.
Affinchè una Confraternita del Rosario possa godere di tutte le Indulgenze e dei privilegi concessi dai Sommi Pontefici all’Ordine domenicano, è necessario che il Padre Generale del medesimo Ordine spedisca il diploma di fondazione, e nomini il rettore; e che il Vescovo del luogo approvi e la erezione e la nomina.
Ora io che, per singolare amore che portavo a S. Domenico, ero già aggregato al suo Terzo Ordine di Penitenza, e non tralascio nessuna occasione per mettere in amore e venerazione agli altri il bianco abito del Santo Istitutore del Rosario, avrei desiderato con tutto il cuore che il mio amico, P. Radente, fosse eletto rettore della nuova Confraternita che stava per sorgere a Pompei.
E fatto ritorno a Napoli, gli aprii l’animo mio. – Non posso, - rispose con la consueta sua benignità il Padre Radente; - poiché, sebbene siano disciolti i conventi, io vivo nondimeno in comunità con altri Padri a Napoli, facendo parte della Diocesi di Napoli, e non voglio perdere per alcuna ragione la figliuolanza del convento di S. Domenico Maggiore.
Quindi non posso essere rettore della Confraternita di Pompei, che appartiene ad un altro Vescovo, e domiciliare in altra Diocesi in unione con altri padri. Sarà molto che voi mi otteniate dal Vescovo di Nola il permesso di venire a Pompei a confessare voi ed il popolo. A questo modo io verrò utilmente ogni volta che manderete a chiamarmi.
Mi acquietai a questa risposta, ed egli stesso scrisse a Roma al suo Generale per il diploma di fondazione della Confraternita del Santissimo Rosario in Valle di Pompei, proponendo a rettore di essa il sacerdote di questo luogo, Don Gennaro Federico.
E quel Superiore Generale dell’Ordine dei predicatori, che era allora il Vicario Generale P. M. Fra Giuseppe Maria Sanvito, fu sollecito di spedire a lui il desiderato diploma con la data del 12 dicembre di quello stesso anno 1875.
Il diploma fu mandato a Nola per la firma del Vescovo, e aspettando passò tutto il mese di dicembre. (Autore: Bartolo Longo)
*Capo III - (Il 1876)
Libro Terzo - 1 – L’obolo della vedova del Vangelo (pag. 87)
Venne il gennaio del 1876, di quell’anno che non sarà mai cancellato dalla memoria degli uomini, poiché si apriva l’era della misericordia e dei portenti sulla terra che fu della devastazione, della morte.
Un sole chiaro nel cielo sereno faceva sorridere l’ora mattutina del primo giorno di quell’anno ricordevole.
L’aria mite, senza vento, che ordinariamente domina in questa valle, faceva scambiare il capodanno con il giorno di Pasqua. Ciò non è raro in questa vallata, dove il fuoco del Vesuvio e la rena vulcanica che ne forma il sottosuolo, convertono in dolce clima temperato anche il rude algore invernale. Basta un solo raggio di sole per mutare l’asprezza dell’inverno in tepore di primavera.
Il prudente Vescovo di Nola ci aveva dato due consigli: l’uno, di non intraprendere nessuna opera di fabbrica senza prima aver raggruzzolato una buona somma come capitale bastevole a sostenere le prime spese; e l’altro, di non stabilire l’offerta mensile superiore a un soldo per ciascuna persona. – Due soldi al mese, - egli diceva, - alla fine di un anno o due, stancano gli offerenti, ma un soldo non indispone nessuno.
Ancora suggerì che noi movessimo i contadini a questa elemosina, sia per educarli alla virtù cristiana della carità, sia per non sottrarli al merito di edificare quella chiesa, la quale doveva servire per loro spirituale vantaggio.
Io dunque dovevo recarmi in giro per i campi a più nobile scopo che non avevo avuto prima; non per ordinare una festa tra campagniuoli, ma per edificare la casa di Dio!
Ed il quel giorno di Capodanno, insieme con il sacerdote D. Gennaro Federico, incominciai a girare per raccogliere l’obolo delle campagna.
Oggi mi allieta l’animo rileggere scritti quei nomi di villici in un librettuccio che conservo gelosamente, come quello che raccolse le primizie delle offerte consacrate alla nostra cara Madre.
Trecento furono i pompeiani iscritti al devoto concorso: e la somma raccolta del principio di quell’anno memorabile fu di quindici lire!
Pure quelle quindici lire mi parvero in quel momento gran cosa, un inizio non dispregevole. Mi ricorse al l’obolo della vedova del Vangelo, e le solenni parole di Gesù tramandateci da S. Marco: In verità vi dico, questa povera vedova ha messo più di tutti.
Quelle quindici lire, che pesarono quanto le migliaia dei ricchi, furono il primo seme che doveva produrre di li a poco l’ubertosa raccolta.
I poveri furono i primi oblatori per quella umile chiesa, che doveva in seguito tramutarsi in Santuario mondiale; e i poveri di ogni paese ne hanno seguito l’esempio. Sì. L’obolo del poverello, che attrae copiose le benedizioni del cielo, è concorso alla maestà e alla ricchezza di questo Tempio santo di Dio.
Era così decretato da imperscrutabile sapienza divina. In altri tempi erano i Re, erano i Papi, erano i Principi, erano le ricche abbazie, che con le loro dovizie ponevano mano alla fondazione di templi sontuosi ed alle nuove istituzioni sociali e religiose.
In Pompei è mutato l’ordine dei fatti. Un Tempio sorgerà, e sarà monumentale, e richiamerà le genti di molte nazioni: ma la sua prima pietra fu il prezzo del sudore della fronte dell’indigente agricoltore; il suo incremento non si fonderà su rendita certa o sopra un capitale assegnato, o sopra il sussidio di un governo o di un municipio, di un Principe della Chiesa, o dello Stato, o sulla protezione di un Magnate o di un Imperatore. No: ma sarà il frutto dell’obolo incerto, eventuale, spontaneo della carità del privato.
E il suo avvenire?... Oh! esso poserà incrollabile sulle innumerevoli beneficenze della Madre dei credenti, sulla lacrime da Lei terse, sugli affanni da Lei temprati, sul balsamo da Lei versato sulle piaghe dell’umanità sofferente.
2 - Le primizie della città di Napoli (pag. 89)
Vedevo chiaro che con le sole offerte dei contadini di Pompei non potevo certamente innalzare unLa Contessa Marianna De Fuscoa chiesa anche se piccola; feci assegnamento sulle numerose conoscenze che la Contessa De Fusco ed io avevamo a Napoli.
La Contessa volse i suoi primi passi al Largo Petrone alla Salute, dove la colta e pia signorina napoletana Caterina Volpicelli aveva fondato la Pia Unione delle gentildonne al lavoro per le chiese povere.
E quella, su cui cadde la scelta della Madonna per sua primaria Zelatrice, fu la Signora Maria Irbicella, moglie del signor Domenico Irbicella.
Dapprima costei si scusò di non poter riuscire a bene, allegando le sue svariate cure domestiche, come madre di numerosa prole, e le molte Opere di Beneficenza sorte in Napoli, tutte a carico della carità privata, e tutte fondate sul medesimo determinato numero di caritative persone.
Ma la Madonna che per l’edificazione del suo Santuario voleva servirsi di persone che il mondo stima meno adatte, diede tanta efficacia al buon volere di lei, che in breve tempo centinaia di famiglie, indotte dal suo zelo, si aggregarono alla incipiente Opera di una futura chiesa in Pompei, la quale era più nel desiderio che nel fatto. Allora la signora Irbicella fu centro delle offerte di molti, e fu la principale Zelatrice in Napoli.
E non giungendo essa a riscuotere da tutti, elesse altre zelatrici. Si trattava sempre di un soldo al mese.
Può di leggieri comprendersi che tra le prime iscritte si trovò anche la mentovata Caterina Volpicelli ed altre zelatrici del Cuore di Gesù. Tra quelle non dimenticheremo mai due anime veramente verginali e privilegiate, le quali ora seguono l’Agnello in Cielo ovunque ei vada.
La prima fu la Principessa Margherita di Santobono, la madre del Terzo Ordine Domenicano dei tempi nostri, donna di pietà eminente e di carità eroica, la quale amava la Contessa De Fusco e me di tenerissimo fraterno amore. E l’altra fu la esemplare giovane Ernestina Freda, la quale in buon’ora la Madonna scelse ad aiuto alla Contessa; e fu a questa per lo spazio di cinque anni indivisibile compagna nella dura impresa di andare attorno per le famiglie napoletane, domandando l’iscrizione di un soldo per la Chiesa di Pompei.
Ernestina Freda accolse sempre con silenzio tutti i rimbrotti, i visi duri e le parole fredde o amare, che sovente, nel corso di cinque anni andando per famiglie ignote, si rivolgevano contro alla Contessa De Fusco da persone che naturalmente non potevano mai credere che con un soldo potesse costruirsi una chiesa, e, per giunta, in una campagna deserta ed abbandonata.
Ernestina Freda era, nella piccolezza della sua persona, tipo di donna forte, instancabile, di volontà ferrea ed indomita; onde con il corpo affranto da continue infermità, superava se stessa, tutto sprezzando per lavorare alla gloria del Signore.
Subito che io conobbi quell’anima cristianamente operosa, non tardai di presentarla al Padre Maestro Radente; ed in breve tempo divenne fervida terziaria di S. Domenico, e scelse campo dei suoi sudori la povera chiesa dei PP. Domenicani sul Vomero, per la quale consumò il corso del suo cristiano apostolato.
Il nome della fervorosa terziaria di S. Domenico, che fu modello di modestia cristiana e di carità attuosa in mezzo al secolo, resterà scritto non solo nelle memorie della Chiesa di Santa Maria La Libera sul Vomero ma ancora nelle pagine della Storia del Santuario di Pompei.
Anch’io procurai di essere parimente avventuroso. E la prima casa a cui mi diressi fu quella della Baronessa di Castro de Rosa, la quale dimorava al Palazzo Montemiletto in Via Toledo. Costei sottoscrisse per sé e per tutti i suoi, e mi presentò alla ottima famiglia dei signori Ricciardi, che abitavano al quartiere di ricontro.
E la santa vedova, Concetta Gallucci, che ora è in Cielo, apprese con tanto fervore la nuova di impiantare nella deserta campagna di Pompei lo stendardo del Rosario, che si fece sollecita di parlarne a numerosi amici e parenti, e ai suoi fratelli, padri della Compagnia di Gesù, alla famiglia dei signori Pandolfelli, e a tutta la brigata che soleva tornare nelle sere assegnate a conversare dietro i loro nomi.
Mi rivolsi ancora a quelle due illustri famiglie che onorano il patriziato napoletano, e che mi portavano singolare benevolenza: a quella cioè del Marchese Francesco Imperiali, tipo di animo benefico e veramente nobile, ed a quella della pietosa Marchesa di Latiano, Irene Imperiali, la quale indusse tutta la sua famiglia a concorrere al santo scopo.
3 – L’Immagine ribenedetta – Erezione della Confraternita del Rosario in Valle di Pompei (pag. 92)
Il gennaio del 1876 era per finire quando fummo avvisati che il Golella era venuto a consegnarci il quadro restaurato.
Il pittore, poveretto! Non aveva potuto far di meglio: a tutte quelle graffiature e brani rosi dal tempo e dalla tignuola aveva applicato altrettanto stucco e colore da rimarginare le antiche ferite, e poi su tutta la tela aveva sparso una quantità di vernice da farla parere nuova. Ma il volto della Madonna era sempre quello sgraziato e disaggradevole; mancava sempre il diadema sul capo e quello spazio di tela, voluto dall’arte acciocché la testa della figura non tocchi la cornice. Oltre a ciò, la Santa Rosa era tuttavia grassa e rozza contadina incoronata di rose, il cui abito bianco, senza pieghe e senza chiaroscuri, sembrava una grossa tavola gettatale sul petto, che con il suo peso facesse rovesciare indietro la persona.
Però, così restaurato, potevasi almeno esporre alla pubblica venerazione, senza pericolo di essere interdetto dalla S. Visita.
Ricevuto il quadro con qualche soddisfazione, mi rivolsi con piacevole garbo al pittore e lo richiesi del prezzo. – Sessanta lire. – Come? sessanta lire!... tutto il quadro non costa che tre sole, e voi me ne domandate sessanta per un ritocco? – Sessanta lire ho detto; perché la mia fatica vale molto di più. Solamente di vernice, di colori e di gesso vi ho speso sessanta lire. – Se così va la cosa, togliete per voi il quadro, e vendetelo a vostro profitto. Esporrò nuovamente la mia litografia fino a che non faremo la chiesa nuova.
Allora il pittore, che era davvero un buon cristiano, come seppe meglio la destinazione di quella Immagine e il concorso che ponevano i poveri contadini ad erigere la loro chiesetta, non solo non volle le sessanta lire, ma delle tredici da me profferte, ne tolse solamente dieci per sé, e le altre tre porgendomele, - Voglio – disse – essere il primo a concorrere per il nuovo tempio.
E le tre lire del pittore Galella furono infatti le primizie dell’arte consacrata al Tempio di Pompei, di quell’arte per cui avremmo speso dipoi cinque milioni di lire!...
Oh! se avesse saputo il pittore Galella che egli era il primo ad aprire la lista degli artisti italiani, che con la spontanea loro opera per questo Santuario eternano il loro nome in terra e in cielo! Sarebbe stato assai più contento, considerando che la Provvidenza destinava lui a porre le mani, per il primo ritocco, su quella Immagine che avrebbe tra poco riscosso venerazione dei popoli di tutta la terra.
Entrò il febbraio.
Finalmente il quadro era pronto, il diploma dell’erezione della Confraternita era ritornato da Nola con l’approvazione del Vescovo: non restava che ribenedire l’Immagine ritoccata, erigere canonicamente la Confraternita, e destinare un altare proprio del Rosario, sul quale si esponesse la Vergine, ed al quale venissero annesse le Indulgenze. Ma anche per questo sorgevano nuove difficoltà.
Nella piccola Parrocchia non vi erano che due soli altari: il Maggiore dove si conservava il SS. Sacramento, e dedicato al SS. Salvatore, era stato costruito testé di marmo a spese della predetta Pia Unione del Signore; l’altro, elevato con le raccolte dei contadini e dedicato a S. Francesco d’Assisi.
Fatto un lungo discutere con i sacerdoti e con il vecchio Parroco, si convenne di chiedere al Vescovo di Nola il permesso di togliere temporaneamente, fino a che non fosse costruita la prima cappella del nuovo Santuario, l’immagine di S. Francesco dal suo altare, e porvi invece quella del Rosario.
Scelsi studiatamente il 13 febbraio, perché in quel giorno cade appunto la festa di una gran vergine del Terzo Ordine di S. Domenico, S. Caterina dei Ricci: ed io, Terziario, coglievo qualunque occasione per fare ad altri amare e desiderare il mio Terzo Ordine di Penitenza.
Venuto il giorno ordinato alla gran funzione, tutta questa gente accorse nella piccola Parrocchia. Io avevo ottenuto dal Vescovo di Nola, che lo stesso Padre Radente, da me pregato, fosse venuto da Napoli a ribenedire il quadro rinnovato. E il modesto Padre domenicano ribenedisse l’Immagine ritoccata, e poi solennemente a voce di popolo dichiarò eretta la Confraternita del Rosario di Pompei. Lesse il diploma del P. M. Generale dell’Ordine, con il quale era nominato Rettore il R. D. Gennaro Federico, e la Società del SS. Rosario di Valle di Pompei si rendeva partecipe di tutte le Indulgenze e privilegi e meriti dei tre Ordini di S. Domenico.
Quindi aggregò al Terzo Ordine di S. Domenico il Parroco e il sacerdote Federico ed altre undici persone della Valle.
Sicchè la Madonna premiò in quel giorno le mie fatiche, dandomi il massimo dei contenti, di vedere cioè nello stesso giorno fondata qui la Confraternita del Rosario, a Lei sì diletta, e impiantati i rami benefici del Terzo Ordine di S. Domenico, che è Scala dei Santi per salire al Cielo.
Oh come ritornò contento la sera a Napoli quel dolce direttore dell’anima mia, e narrò ai suoi compagni padri domenicani, con la consueta sua ilarità. L’avventura occorsagli che il vecchio quadro comprato per lire 3,40 era servito a erigere in Pompei la Compagnia del SS. Rosario.
Con questi umili principi ebbe origine quella Confraternita del Rosario di Pompei, che in pochi anni ha sparso le sue pacifiche diramazioni non solo in tutta Italia, ma in tutte le parti del mondo, da comprendere più di cinque milioni di Aggregati tra cui Vescovi, cardinali, Principi e Regine, ed il più grande nome del secolo, il rappresentante di Cristo. Leone XIII! (Autore: Bartolo Longo)
*Capo IV - (Il 2°restauro del quadro della Vergine)
Libro Terzo (pag.96)
Ma per compiere la storia del quadro, oggi tanto venerato, è bene che rannodi in questo punto i fatti occorsi dopo quattro anni al suddetto giorno festivo.
Il Comm. Federico Maldarelli, insigne pittore napoletano, nel maggio del 1879 per sua specchiata pietà, vedendo cresciuta la devozione di tanti signori napoletani e forestieri verso la Vergine del Rosario di Pompei, la cui Immagine per l’umidità della Parrocchia era quasi nel totale suo deterioramento, si offerse gratuitamente a farvi una più perfetta e completa riparazione.
Accettai con gioia la generosa offerta e colsi questa occasione per mettere in attuazione un mio disegno: quello cioè di mutare la S. Rosa in una S. Caterina da Siena. Ambedue queste Vergini del Signore appartengono al mio Terzo Ordine di Penitenza, e la prima, gloria delle Americhe, è la prima Santa che il Nuovo Mondo, di fresco scoperto e cristianizzato, diede alla Chiesa. Ma io avrei preferito accanto alla Vergine del Rosario nella mia Chiesa la mia speciale protettrice, l’Angelo di Fontebranda, la Serafina di Siena, e perché italiana e gloria dell’Italia e della Cristianità tutta quanta, e perché Madre e Maestra singolarissima del medesimo Terzo Ordine e della stessa S. Rosa.
Pregai, quindi, il pio Maldarelli, che gli piacesse mutare la corona di rose di S. Rosa in corona di spine, segno distintivo della nostra Vergine Italiana; e nelle mani dipingesse le due piaghe che ricordano le sue venerate stimmate.
Restava il punto più arduo, quel faccione che, se era disdicevole per una S. Rosa, era del tutto incompatibile per una S. Caterina, di complessione gentilissima e macilenta, quale ce l’ha tramandata il Vanni in quell’unico ritratto, che di Essa si ammira, nella chiesa di S. Domenico in Siena.
Il pio e gentile artista napoletano promise di farmi contento. E il giorno seguente, la Contessa De Fusco nella sua carrozza portò il quadro da Valle di Pompei a Napoli, e lo depositò nella libreria del signor Salvatore Festa, affinché questi pigliasse cura di farlo pervenire allo studio del valoroso pittore.
Ma già la Regina del Rosario nel giro di quei tre anni aveva dato dal Cielo la sua voce di compiacenza e di approvazione all’opera nascente in questa Valle, all’innalzamento di un Tempio a lei sacro, largendo grazie e prodigi. E molti signori e signore cominciavano le loro pellegrinazioni da Napoli a questa Valle per ringraziare la benedetta Madre di celesti favori conseguiti, o per impetrarne dei nuovi.
Intanto pareva a me sconveniente, che la gente venisse sino a Pompei a ringraziare la SS. Vergine, o a pregarla, e non vi trovasse alcuna immagine da venerare. Ancora, la devozione popolare che sovente si appiglia a quella data immagine, a quella scultura, a quel colore, a quell’abito, o forma, onde è adusa venerare ogni dì la Madonna, sarebbe di certo affievolita. Come provvedere?
La bontà di Dio, che inizia e compie il buon volere degli uomini, non mi fece difetto anche questa volta all’espediente che io trovai, il quale produsse ancora altri avvenimenti straordinari.
Il mio consueto ritrovo in Napoli a quel tempo era la cara chiesetta del Rosario a Porta Medina.
Colà insieme con il mio compianto amico e direttore dell’anima mia Padre Radente, e con il Dott. Giuseppe Gaetani, avevamo istituito fin dal 22 gennaio 1874 una riunione di signori e di signore terziari secolari, e ogni mese, secondo la regola, qui tenevamo la pia adunanza. E fu appunto per la devozione che il Gaetani ed io avevamo in S. Cecilia, che venne stabilito in perpetuo il giorno vigesimosecondo di ogni mese, per la giornata della sacra conferenza. E oggi è in vigore ancora l’usanza medesima, nel giorno stesso da noi stabilito, nella chiesa di S. Domenico Maggiore, dove i nostri terziari nel 1885 fecero passaggio.
Anima di questa Congregazione del Terzo Ordine nella chiesa del Rosario a Porta Medina era quella Terziaria che a me diede il quadro della Vergine, Suor Maria Concetta De Litala.
A lei, dunque, manifestai la perplessità del mio animo. Ed ella mi soggiunse che lo stesso P. Radente, nel comprare tanti anni addietro in via dell’Anticaglia per lire 3,40 il quadro del Rosario, aveva pure acquistato per lo stesso prezzo un altro quadro, della stessa misura e del medesimo autore, rappresentante lo sposalizio di Santa Caterina da Siena. Ora è saputo che quel venerando uomo, per grande tenerezza che aveva del Rosario e della sua protettrice Santa Caterina da Siena, reputò di soddisfare ad un impulso di pietà, quando, vedendo in mezzo alla via gettati tra ciarpami e tele vecchie i due oggetti del suo celestiale amore, li sottrasse da questo sprezzo, comprandoli e recandoli con se.
E quella suora aveva pure questo secondo quadro datole dal buon padre. – Bene sta, - io soggiunsi a lei: - voi mi deste il primo quadro, per mettere in cuore ai contadini il Rosario, e voi mi darete pure il secondo, per non fare illanguidire la devozione andata innanzi negli animi, non che dei Pompeiani, dei Napoletani.
La suora gongolante di gioia, perché si vedeva strumento nelle mani di Dio di fare alcun bene alle anime lontane, e di promuovere sempre più la devozione al Rosario ed a S. Caterina, di subito portò giù il quadro, il quale, a dir vero, era vecchio quanto il primo. Ma non era né deforme né così male andato come quello.
Eravi dipinta la Vergine del Rosario con il Bambino sulle braccia, che dona l’anello delle celesti sposalizie a S. Caterina. Vi mancava, è vero, S. Domenico, ma il volto della Vergine aveva una certa grazia; e la S. Caterina da Siena non era ributtante come la S. Rosa della prima tela: onde a me parve aver cavato un vantaggio.
Il popolo, io pensavo, non avrà male la sostituzione della Immagine. È sempre la vergine del Rosario che io presento a venerare.
Ma un dubbio nero, sconfortante, sorgeva a turbarmi lo spirito: - Continueranno le grazie del Cielo, quando io porrò una diversa immagine a venerare? – Oh! senza dubbio, - rispondevo io a me medesimo. – Non è l’Immagine che fa miracoli in Pompei; ma è la virtù di Dio che principalmente vi opera; perché egli solo fa cose grandi ed ammirabili: Qui facit mirabilia magna solus. L’Immagine è semplicemente strumento dei prodigi di lui. Ma Dio vuole, oggi più che mai, onorata nel mondo la più sublime creatura uscita dalle sue mani, la Madre divina di Gesù; e la vuole onorata da tutte le genti con un solo accento: Ave, - e con un medesimo inno: Il Rosario! È dunque il Rosario, che attira in singolar modo le benedizioni del Cielo; è la Chiesa del Rosario, che la Madonna vuole edificata in Pompei, come lo mostra con i suoi portenti.
Io non m’immaginava: il mio nuovo ardimento di contrastare alle abitudini di un popolo fu coronato di felice risultato. Il secondo quadro, posto nel luogo donde avevamo tolto il primo, riscuoteva la medesima venerazione; e novelle grazie prodigiose piovevano dal Cielo su molti che si associavano al novello Santuario, o venivano qui a prostrarsi ad impetrarle.
La Vergine celeste si degnò significarmi con i fatti, che Ella dal Cielo largiva le sue grazie su questo luogo abbandonato, per amore che ha al suo divino Rosario, e massime per la predilezione al Tempio, che si sarebbe eretto in onore del medesimo suo Rosario sulla pagana terra di Pompei. E se anche fosse tolta questa Immagine, i prodigi del Signore sarebbero sempre gli stessi.
Tra le grazie ottenute allorché era in venerazione il secondo quadro di Santa Caterina con la Vergine del Rosario, basta citarne una sola, che il lettore già trova pubblicata e documentata nel libretto “Novena alla SS. Vergine del Rosario di Pompei”, e nel Periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei”, nell’Anno III, a pag. 34. Voglio dire, la grazia, concessa a me in persona, della vita ridonatami dalla Madonna appena che feci entrare questo quadro dello Sposalizio di S. Caterina nella mia camera. E fu la sera del 18 agosto del 1879.
Oggi, chi vuol vedere cotesta Immagine guardi in fondo alla prima Sala del Dormitorio di queste Orfanelle. Ho voluto che la Santa di Benincasa, maestra di tutte le virtù, la quale ottenne da Maria la grazia della mia vita temporale, fosse guida sicura alla via del Cielo a tutte le povere Orfanelle da me qui raccolte ed a Lei affidate.
Mi sono avvisato di non trovar miglior posto per quella immagine, che in mezzo all’innocenza abbandonata, la quale forma la vera corona di rose e di gigli alla Regina delle Vittorie di Pompei.
Il Maldarelli tenne seco, nel suo studio di pittura, dal giugno all’agosto 1879 la prodigiosa Immagine, conosciuta oggi sotto il popolare titolo di “Vergine di Pompei”.
Dal canto suo non mancò di usare ogni diligenza che ne uscisse un quadro devoto. Egli s’ingegnò di assottigliare, quanto poté, la testa della Madonna e la grossa faccia di S. Rosa. Ingentilì al miglior modo il volto ruvido di S. Domenico, e diede al Bambino un’aria e l’espressione di una vivacità che conserva tuttavia.
Se non che, la tela, come si è detto, era andata a male. Per rimetterla a nuovo il Comm. Maldarelli ebbe ricorso ad uno dei primari artisti di tal genere che siavi a Napoli, al Signor Francesco Chiariello, il quale aveva ed ha ancora lo studio a Palazzo Luperano, Salita Museo.
Ricordo che per la sola tela pagai al Chiariello lire sessanta. Costui con finissima arte, secondo i moderni ritrovati, sottrasse dal dipinto la vecchia e logora tela, e vi sostituì una nuova molto più alta: per il che il Commendatore Maldarelli ebbe modo di aggiungervi un palmo di dipinto che mancava al vecchio quadro. E ciò esegu’ con tale imitazione delle antiche tinte, da far parere, da lontano, l’opera essere stata fatta in un tempo e da un medesimo autore.
E così, ritoccato il quadro una prima volta dal pittore Galella nel 1876, rifatto dall’esimio artista Comm. Maldarelli nel 1876, che mutò al tutto il volto della Vergine e cambiò la Santa Rosa in una Santa Caterina da Siena, tolta persino l’antica tela, e passato il dipinto su di altra, non rimase dell’antica Immagine quasi più orma.
Così esposta, inquadrata in una cornice di bronzo fuso, che ci è costata diecimila lire, circondata da quindici Misteri del Rosario, dipinti dal Paliotti, essa acquistò tale parvenza estetica che il leggiadro volto della Vergine ci apparve veramente quale “par tremolante mattutina stella”.
Ed oggi, un cumulo di pietre preziose, rappresentanti un gran valore, ornano artisticamente la celestiale Immagine, e sono come tante voci di fedeli, che da ogni parte del mondo attestano le grazie della Vergine Santissima di Pompei.
Sua Santità Leone XIII nell’aprile del 1887 benedisse con le sue sante mani il meraviglioso diadema che doveva cingere la fronte della Vergine Immacolata; e questo diadema è di una squisitissima fattura. I diamanti, gli zaffiri, e le altre pietre preziose le formano una scintillante aureola. Quattro magnifici smeraldi sono dono di due ebrei.
Una goliera di brillanti, formanti il motto ROSARIO, orna il petto della sacra Immagine.
Una stella, di non ordinaria grandezza, composta di purissimi solitari, scintilla sulla fronte del Bambino; mentre che un’altra corona di dodici lucentissime stelle di brillanti circonda il capo della Madre edel Figlio divino, irradiando di mistica luce i loro amabili volti.
La Corona del Rosario che la Vergine porge a Santa Caterina da Siena è di perle preziose, come di finissime perle è quella che il Bambino Gesù porge a S. Domenico. Un grosso solitario brilla all’orecchio della Vergine. Il sandalo del suo piede sinistro è di oro, ingemmato di pietre preziose. Altre gemme di valore artisticamente disposte trapuntano il suo manto. E ai piedi del Trono spicca il dolcissimo angelico saluto: Ave Maria, in lettere formate tutte di brillanti.
Serbiamo però con compiacenza le prime figure ritratte dalla primitiva informe Immagine.
L’artista avventurato, che noi invitammo a Pompei nei primi tempi, fu il vecchio Dolfino di Napoli, il quale lavorava per conto dei cartolai in via S. Biagio del Librai, e ci fu condotto dal libraio Salvatore Festa.
Pure quei primi disegni e quelle prime incisioni litografiche, che oggi sembrano deformi, furono oggetto d’immensa venerazione.
E noi stessi le abbiamo viste incorniciate con eleganza in quadri di argento e di oro, e venerate in casa di nobili famiglie, specie in quelle che furono le prime ad accoglierci, quando andavamo attorno per Napoli ad associar persone per un soldo al mese.
Ma neppure dopo il secondo restauro, l’Immagine era adatta ad essere fotografata. Serbiamo, come documento storico, le prime fotografie, che non furono accette a nessuno.
Non pare effetto dell’arte pittrice, non pare opera umana quella espressione celeste, che oggi quanti vengono al Santuario, tutti ravvisano nella faccia della Madonna, la quale ispira confidenza, amore e devozione ad un tempo. È raggio di bellezza, di dolcezza e di maestà insieme che piove da quel ciglio, e che fa piegare il ginocchio e battere il cuore a quanti con fede si si accostano in questo Santuario a quella vecchia tela. Io sono convinto che con un visibile portento la Vergine abbia abbellita la sua figura. E tutti quanti qui siamo, conveniamo nel riconoscere, che dal giorno in cui questo quadro venne tolto dalla vecchia e crollante Parrocchia del Santissimo Salvatore, e fu posto in una cappella nuova a sinistra del Santuario; e propriamente dove oggi è venerata S. Caterina da Siena; (Tale cappella fu demolita con l’ampliamento del Santuario, e a S. Caterina da Siena veniva dedicato il primo altare a destra dell’ambulatorio che corre dietro l’altare maggiore) da quel giorno cominciò nella fisionomia della Celeste Regina a ravvisarsi una bellezza, una maestà ed una confidenziale dolcezza, che non vi si ravvisavano innanzi.
E se pur si voglia credere, come anche può essere, giacché la Vergine non ha bisogno di miracoli, che questa nostra maniera di vedere e di sentire nasca dalla disposizione del nostro animo; resterà sempre inconcusso e fuori dubbio, per le quotidiane prove, questo fatto: cioè che napoletani e forestieri, i quali qui pervengono ogni giorno, riconoscono in questa Immagine qualche cosa che attira ad ammirarla, non per magistero di arte, non essendo questa certamente una delle Vergini di Raffaello, ma sì invece per una forza arcana che s’impone, e trae, quasi senza volerlo, ad inchinarsi a pregare.
Oh! sì: pregando dinanzi a questa benedetta Immagine, si sente nell’animo la ferma speranza che la preghiera debba essere esaudita, e si prova tale ineffabile dolcezza, che, non gustata, non s’intende mai.
È questa la storia della prodigiosa Effige che si venera in Valle di Pompei, centro dei sospiri, delle suppliche e dei voti di milioni di Cattolici, che ad Essa da ogni parte d’Italia, d’Europa, anzi del mondo, si rivolgono confidenti. (Autore: Bartolo Longo)