Piazze a SMCV
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*P.zza Adriano *P.zza Bovio *P.zza Del Duomo *P.zza Giacomo Matteotti *P.zza Giuseppe Mazzini *P.zza Mercato *P.zza S. Francesco D'Assisi *P.zza S. Pietro
I lavori di ristrutturazione eseguiti nel convento degli Angeli Custodi, fecero notare, agli amministratori, la necessità di aprire un nuovo ingresso all’edificio, divenuto sede del Liceo più importante della provincia. Ma, oltre a ciò, altre esigenze si intravedevano. Innanzitutto vin era il fatto che il prospetto del Teatro, per la poca larghezza della strada ad esso prospiciente; non era valorizzato abbastanza.
Quindi, verso il 1933 espropriati ed abbattuti alcuni fabbricati dei sigg. Lucarelli e Smeragliuolo (che in essi aveva il suo laboratorio di falegnameria con un buon numero di operai), venne realizzata una piazza di forma semicircolare. Al centro della facciata perimetrale venne collocato il nuovo ingresso: un cancello in ferro, inserito in un arco a tutto sesto, si apre fra due coppie di colonne, sovrastate da un timpano ad arco che racchiude un balcone balaustrato.
Lungo la facciata, realizzata a bugnato, sono disposti, sette su ogni lato del suddetto ingresso, dei locali adibiti, nel tempo, ad uso di negozi, di banca, di bar. Sopra di essi, una lunga e ampia terrazza, impreziosita da una grande balconata con pannelli in pietra scolpiti a traforo.
La piazza venne dedicata alla principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Umberto II e Maria Josè, che, proprio in quei giorni, il 24 settembre 1934, nasceva a Napoli.
Successivamente la piazzetta venne intitolata a Giovanni Bovio, nato a Trani nel 1841, docente di filosofia all’Università di Napoli, dove teneva un corso libero di filosofia, amico di Mazzini, presidente della associazione “Italia irredenta”, deputato al parlamento, di assoluta fede repubblicana. Fu amico e collega di Antonio Tari.
Era il padre di Libero Bovio, poeta, autore di celebri canzoni scritte in napoletano, come ad esempio ‘O Paese d’ò sole, ed in italiano come Signorinella, solo per citarne qualcuna.
Sul lato sinistro di piazza Bovio si trova il “Palazzo Ricciardi” realizzato verso la fine del XIX sec. Il portone d’ingresso presenta un arco a sesto ribassato ed immette in un androne con volta a botte su cui è affrescato il blasone della famiglia Ricciardi: un leone rampante.
Sulla destra, è collocato il vano scale impreziosito da decorazioni lungo le pareti. La ringhiera è di ferro battuto e riproduce gli stessi elementi decorativi dei balconi sulla facciata.
Un tempo gli appartamenti erano decorati; oggi è conservata solo una scena che raffigura le tre Arti: la Musica, la Poesia, la Pittura: tre fanciulle che rispettivamente recano in mano un libro e una tavolozza di colori.
La scena è incorniciata da decorazioni con foglie e ovali in cui si notano le iniziali del nome del proprietario.
Continuando la passeggiata lungo il c.so Garibaldi, si incrocia l’antico cardo “Via Alberto Martucci” sulla sinistra. Questi nomi rivestono notevole importanza nella storia della nostra città.
(Autore:Salvatore Fratta)
La piazza, come tutte le strade e le piazze della nostra città, ha avuto varie denominazioni: Platea Major, piazza della Chiesa. Piazza Mazzocchi, piazza Matteotti.
Si presenta in forma irregolare quasi quadrata, circondata:
“Sul lato est” da via Mazzocchi che prosegue verso il centro città.
“Sul lato sud” da via G. Marconi, resa più agibile, negli anni 1826 – 1829, con l’allargamento e la posa in opera della pavimentazione con pietre dei monti Bellona. A circa metà del suo percorso, sulla destra, inserita fra le fabbriche di due cappelle del Duomo, si apre uno spazio che ospita un accesso laterale alla chiesa: la Porta dei Morti.
Sul lato nord, si innalza la mole del Palazzo Melzi.
Sul lato ovest, si ammira il prospetto del Duomo.
L’ampio spazio dinanzi al Duomo si venne a creare con l’abbattimento dell’antico quadriportico. Per molti anni il suolo rimase libero da impedimenti, poi nello stesso spazio fu costruita la piccola chiesa della santissima Annunziata, gestita dalla congrega Ave Gratia Plena.
Durante il breve periodo della effimera Repubblica Partenopea, nel febbraio 1799, il giorno di Quaresima, nella piazza venne innalzato l’Albero della Libertà sulla cui sommità fu posto il berretto frigio, (Il berretto frigio era simbolo di libertà. In Roma antica, il berretto frigio, chiamato pileus, era donato dal padrone allo schiavo affrancato, divenendo quindi simbolo di libertà. Con questa connotazione venne adottato dai rivoluzionari francesi e posto sulla testa di Marianne, emblema della Francia repubblicana), di rame e lungo i lati, intrecciate fra loro, una scure ed una bandiera con tre colori della Repubblica Partenopea: azzurro, giallo, rosso.
Un frate cappuccino, padre Alfieri del convento di S. Antonio in Capua, salito “su di uno dei quattro piccoli ed informi pilastri, giacenti avanti l’atrio della Collegiata Chiesa” alla folla radunata fece il discorso sul valore della libertà, della rigenerazione politica e della carità cristiana. Terminata la predica del frate, da quello stesso posto, il cittadino Michele della Valle tradusse ai soldati francesi là presenti, nella loro lingua madre, quanto detto dall’Alfieri, lodando l’operato della nazione francese e del suo vittorioso esercito ed esprimendo fervidi auguri al nuovo costitutivo governo. Quando poi il 28 luglio, le truppe francesi, ritirate in Capua, si arresero, poche persone, villici del Casale di Portico, abbatterono e distrussero l’albero della tanto sospirata libertà.
L’area antistante la chiesa è affiancata, sul lato sinistro, da un piazzale di maggiori dimensioni: i due spazi formano la piazza attuale.
Nel Settecento, il piazzale suddetto era occupato da alcuni caseggiati; lungo via Marconi erano situate le cosiddette Case dell’Ospedale di proprietà dell’Università (cioè del Comune) di S. Maria Maggiore, con un piccolo piazzale antistante conosciuto come il Largo dell’Ospedaletto.
Nel cortile delle Case dell’Ospedale si trovava la Cappella della Madonna delle Grazie, ampliata, nel 1738, a spese dell’arcivescovo Mondillo Orsini che ricevette il benestare dall’Università purchè l’ampliamento non avesse dato alcuno impedimento al portone dell’Udienza Nuova. Verso il 1875, a seguito di una ordinanza comunale, furono demolite: la Cappella: la cappella della Madonna delle Grazie, la chiesa della SS. Annunziata ed altri piccoli edifici, fra cui alcuni vani di proprietà della baronessa. Del Balzo, adibiti a posto di guardia ed a prigione, e, pertanto, il Corpo di Guardia trasferì la propria sede nel Palazzo del Tribunale. Si ottenne una piazza molto spaziosa, di poco sopraelevata rispetto al piazzale del Duomo. Per la sua sistemazione furono presentati alcuni progetti redatti da ingegneri sammaritani. Si scelse la soluzione più economica: la piazza fu abbellita da una fontana fusa in ghisa, circondata da una bassa cancellata in ferro, posizionata verso la fine della piazza che venne delimitata da due file di alberi.
Nel 1924, la città volle ricordare i Caduti della Prima Grande Guerra. Dalle autorità competenti fu deliberata la costruzione di un monumento per ricordare alle future generazioni tutti coloro che si erano immolati per la Patria.
Rimossa la fontana, che venne installata in piazza S. Pietro, murato l’ingresso alla antica area cimiteriale esistente fra il duomo ed il campanile, eliminati gli alberi lungo i lati della piazza e piantati nuovi alberi e palme sul lato prospiciente il duomo, rifatta l’intera pavimentazione, aggiunti quattro lampioni a quattro luci, venne eretto il monumento, opera dello scultore Giuseppe Tonnini, già autore della seconda statua del monumento ossario nella Villa Comunale. Anche questa statua bronzea venne fusa nelle officine Laganà fonditore napoletano. Il monumento occupa uno spazio racchiuso da una parete semicircolare di travertino alta circa due metri terminante con due pilastri di poco più alti e decorati con il bassorilievo, spesso ricorrente nei monumenti dell’epoca, della corona di fronde e della spada. Sulla pietra, sotto l’iscrizione AI SUOI GLORIOSI CADUTI LA CITTA’ RICONOSCENTE sono incisi i nomi dei 251 nostri concittadini caduti sui campi di battaglia o morti negli ospedali per le ferite e malattie contratte nei lunghi mesi di guerra. Successivamente vi furono incisi anche i nomi dei Caduti della II Guerra Mondiale.
Al centro dell’esedra, su tre scalini poggia il piedistallo che presenta la scritta MCMXV MCMXVIII, sovrastata da festoni fusi di bronzo. Su di esso si erge la statua in bronzo del fiero soldato in uniforme che con la mano destra sorregge il fucile, e con la sinistra innalza al cielo un fiore, simbolo di sacrificio. Il monumento era circondato da una bassa ma artistica cancellata in ferro retta ai lati da pilastri in travertino, mentre i due battenti del cancelletto, che si apriva al centro, erano retti da pilastri fusi in ghisa.
La suddetta cancellata, pochi anni fa, fu sostituita da una massiccia catena, di quelle che vengono usate per ancorare le navi.
Il 27 giugno 1926, fu il giorno dell’inaugurazione del monumento. Alla stazione ferroviaria, il Prefetto, l’Arcivescovo, il Podestà Pasquale Fratta, e le altre autorità convenute, accolsero l’ospite più importante: il principe ereditario Umberto II di Savoia, accompagnato dal gen. Baistrocchi. Ricevuti gli onori militari, il principe con il suo seguito, si diresse verso piazza Mazzocchi, dove era atteso dalla folla dei cittadini, dai soldati in armi, dai gerarchi locali, dai balilla, e dalla banda musicale dell’Istituto Angiulli, che interpretò la nota Leggenda del Piave e una canzone scritta per l’occasione da due nostri concittadini.
(Autore:Salvatore Fratta)
Sfogliando
le pagine di un libro edito qualche anno fa, ho ritrovato questa vecchia foto (Nota:
la prima foto della Galleria) che, credo, risalga, più o meno, ad una cinquantina di anni
addietro. Rimirandola, mi è ritornata in mente la minuziosa narrazione delle
attività svolte a piazza Mercato, descritte, con insuperato stile, nelle famose
“Passeggiate Campane”, dal Prof. Amedeo Maiuri, archeologo di fama mondiale che
venne spesso a visitare la moderna Capua per ritrovare l’antica: “Non ho mai
visto mercato meglio ordinato: due o tre file di bancarelle, a ranghi serrati
come banchi di scuola, riempiono il quadrato della piazza, e ogni mercanzia ha
il suo inviolato settore. Dopo le frutte e le verdure, i semi e le farine, c’è
il settore dei mercatini delle stoffe, delle confezioni, del vasellame, dei
ramai, dei cordai, dei calzolai, non trovo i profumi dei roseti capuani, ma, in
cambio, sopra un lenzuolo candido disteso come tovaglia d’altare, c’è la mostra
dei saponi multicolori che irradiano all’intorno un forte odore di muschio. E
un pieno di compratori da non rigirarsi! Avete un bell’allestire giganteschi
empori entro palazzi di vetro, con scale mobili, radio altisonanti, ragazze
cerimoniose al banco, miraggi di lotterie e premi; basta compaia una bancarella
come una filza di percalli e cotonine, perché il popolo faccia ressa
all’intorno. La merce fa più confidenza al sole: si palpa, si osserva, si
recita l’onesto gioco dell’adescamento e della ritrosia fra venditore e
compratore, si ritorna insomma al costume del vecchio Foro italico, origine e
ragione d’ogni convivenza sociale. Come poi facciamo ad esporre tutto quel ben
di Dio sopra due scanni con uno straccio di tenda teso bellamente come una
cortina d’alcova, in modo da far spicco e richiamo di colore e di prezzo, a
scaricare, sciogliere e sciorinare balle su balle e, in quattro e quattrotto, a
rifar fagotto, a incassare tutto nello stesso carrettino che è servito da banco
di esposizione e di vendita, e a ricacciare fuori ogni cosa al mercato del
giorno dopo nella città più vicina, sono miracoli di prestigio ai quali si
assiste come ai giocolieri del circo”.
“A
Capua si andava soprattutto per acquistare strumenti di lavoro, aratri, zappe e
falcetti che Catone, da buon esperto, raccomandava tra i migliori d’Italia, e
vasellame di bronzo e di coccio, la “campana suppellex”, stoviglie comuni di
cucina e da mensa, e per una merce più preziosa e meno rusticana, per il
profumo distillato dai roseti che fiorivano ovunque tra i campi e le siepi, si
da dar vita ad un intero quartiere e da alimentare il mercato della piazza più
universalmente famosa di Capua, la
piazza Seplasia. E poiché in quel profumo di rose sembrava dovessero sopravvivere
le mollezze e le delizie degli ozi di Capua, sono andato alla ricerca della
piazza dei profumi. La Seplasia è quasi certamente da riconoscere nella piazza
che al centro dell’abitato, mutato oggi il nome in piazza Mazzini, è da tempo
immemorabile il vero mercato della città…”
Il
mercato sopra descritto si svolgeva nella piazza centrale della città, un
quadrilatero di forma leggermente irregolare, nel quale, forse, era ubicato uno
dei fori dell’antica Capua: il Foro del Popolo.
Le
fonti hanno tramandato un nome: “Seplasia”, le cui radici sembrano risalire
alla lingua etrusca. A detta degli esperti tale nome indicava la via in cui si
vendevano i profumi; la tradizione, invece, con tale nome identifica la piazza,
famosa già nell’antichità, dove, nei laboratori di unguentari e profumieri, si
produceva, con olio di oliva di altissima qualità e con l’essenza di rosa, il
“rhodinon italikon” il più rinomato profumo campano.
Le
essenze si traevano dalle rose, in particolare dalle rose centofoglie
coltivate, in grandi quantità, nei terreni prossimi alla città e nei campi che
vanno verso il mare, cioè la terra dei Mazzoni. (I quei campi, ancora al tempo
degli Angioini, fiorivano rode selvatiche, sì che i Francesi chiamarono quei
luoghi Maison des roses; di qui Maggione, e poi Mazzone).
Il
pregio dei profumi e la maestria dei profumieri capuani sono stati tramandati
dagli scritti di numerosi autori romani.
Plinio
il Vecchio nel XIII, 6 della Naturalis Historia, scrive delle rose, del profumo
e degli unguenti campani: “Di tutti i paesi l’Egitto è il maggior produttore di
profumi; poi viene la Campania per l’abbondanza delle sue rose” e in
particolare dice: “si produce più unguento a Capua che olio nelle altre
regioni”. Il
poeta festo ricordava: “Seplasia: forum Caouae, in quo plurimi unguentarii
erant”. Seplasia:
piazza di Capua nella quale vi erano moltissimi profumieri.
Anche
Petronio fa cenno nel suo Satyricon, LXII: “Quel giorno il mio padrone si era
recato a Capua per procurarsi alcuni vasetti di profumo…”. E cita ancora i
profumi di Capua, nel capitolo LXXVI.
Gli
unguentari mettevano in commercio “gli unguenti più soavi e delicati”, di cui
non solo i voluttuosi Campani ma gli stessi Romani facevano tanto uso. Nelle
botteghe della Seplasia, via di amori e di piaceri, i venditori offrivano i
loro cosmetici, che “imbalsamavano l’aria con il delizioso profumo di rose”. Durante
buona parte dell’epoca imperiale, Capua quale centro di lavorazione di essenze
profumate, fu in competizione con altre città, e prima fra esse Alessandria
d’Egitto.
Prima
di questo periodo, il profumo era usato quasi esclusivamente per le cerimonie
sacre e la parola stessa deriva dal fatto che le essenze, elevandosi verso il
cielo, onoravano gli dei: “pro fumo tribuere”.
La
pratica di adoperare il profumo come cosmetico si sviluppò a Roma fra la
seconda metà del II e il I a.C., dopo i contatti con la civiltà greca. “Graecia
capta ferum victorem cepit”. Così si espresse il poeta Orazio: la Grecia
conquistata conquistò il rozzo vincitore.
Divenne
consuetudine, dopo il bagno, applicare sul corpo unguenti profumati per
conferire alla persona un persistente profumo, e, in breve, la pratica fu segno
di distinzione e di lusso. Le essenze venivano usate sia dalle donne che dagli
uomini usi a profumarsi non solo i capelli ma anche gli abiti. In alcuni casi
si arrivava all’eccesso: si racconta ad esempio, di Nerone i cui sandali
dovevano essere impregnati di essenze profumate; oppure di Caligola, il quale
ordinava di rendere profumate le pareti della stanza che in quel momento lo
ospitava. Per profumarsi non si badava a spese: in un anno si spesero ben 100
milioni di sesterzi, suscitando il disappunto di Augusto.
Gli
unguenti erano conservati in balsamari di argilla, di vetro o di alabastro
dalle forme più svariate. Negli scavi condotti nel territorio dell’antica
Capua, sono stati ritrovati numerosi esemplari di tali contenitori, nonché i
resti di una fornace per la loro costruzione situata in zona sud-est della
città.
Notevole
era la produzione di olii finissimi e di unguenti, oltre ad una vasta gamma di
profumi con consistenza solida o oleosa. Per
ottenere gli unguenti profumati, le tecniche erano molteplici. L’olio profumato
si ricavava lasciando macerare le sostanze aromatiche in olio d’oliva e acqua,
oppure in olio estratto dalle mandorle o dal sesamo; poi il tutto veniva
filtrato.
Si
ricavavano profumi anche da succhi di olive verdi e acini d’uva non ancora
matura ottenendo così una base quasi senza grassi. Le pomate, cioè gli
unguenti, invece, si ricavavano facendo macerare petali di fiori in grasso
animale, o in cera d’api.
Si
praticava la macerazione perché i profumieri dell’epoca non conoscevano la
distillazione, introdotta dagli arabi più di mille anni dopo, verso il 1100
d.C.
Senza
dubbio il più usato fra tutti i profumi era quello tratto dalle rose, il cui
commercio costituiva una delle colonne portanti per l’economia di Capua.
Nel
mondo romano il lavoro dei profumieri capuani divenne così apprezzato, che dal
nome Seplasia, luogo dove si concentrava il commercio degli unguenti, si
trassero parole nuove: seplasium divenne sinonimo di profumo e seplasarius di
profumiere. Per
propiziarsi gli dei favorevoli al commercio dei profumi, a Capua si celebravano
delle feste a sfondo religioso, detta appunto le Seplasiae, feste che dovevano
essere di notevole rilevanza, e certamente sfarzose vista la ricchezza degli
abitanti.
Il
13 maggio nell’Anfiteatro di Capua si svolgevano i “Rosalia”, la Festa delle
Rose, festa dal carattere gioioso particolarmente seguita dal popolo; inoltre,
nello stesso giorno, si usava adornare con corone di rose le sepolture dei
propri defunti.
Poiché
la rosa era il fiore preferito da Venere, venne innalzato, sul lato orientale
del foro, un tempio dedicato alla dea. In esso si onorava la divinità
cospargendo il suo simulacro con l’essenza ricavata dai petali del fiore.
L’ipotesi
dell’esistenza del tempio è dovuta al rinvenimento, nei primi anni del
Seicento, intorno al 1628, della statua della dea: “… intiera assai bella, la
quale venne trasferita a Napoli, pel detto Museo di Spadafora, ed una gran base
con la iscrizione a Venere Felice…”
Nel
Museo dell’Antica Capua si conserva una statua di Venere, riproduzione in marmo
di una Afrodite Capitolina. Secondo gli archeologi essa è una riproduzione di
un’opera originale realizzata da Cefisadoto. Secondo gli archeologi essa è una
riproduzione di un’opera originale realizzata da Cefisadoto il Giovane, figlio
del famoso scultore Prassitele. Gli studiosi ritengono che la dea fosse
raffigurata nell’atto di cospargersi di profumo dopo aver fatto un bagno.
Ma
la Seplasia, il “forum plebis”, era, soprattutto, il centro commerciale di
Capua: “Qui erano messi in vendita i prodotti del suolo e dell’industria, qui
si trovava la borsa, qui erano messi in vendita i prodotti del suolo e
dell’industria, qui si trovava la borsa, qui prima di tutto si concentrava il
commercio degli unguenti”.
Attraverso
gli scambi commerciali, nella Seplasia, importanti somme di denaro passavano di
mano in mano: lo dimostra un frammento delle Satire Menippea (VIII,3) di MarcoTerenzio
Varrone; in esso il poeta descrive la Seplasia di Capua come uno di quei posti
al mondo in cui si trovavano le più grandi ricchezze, in cui si costruivano le
più grandi fortune.
Gli
scambi commerciali dei mercanti di Capua e di Pozzuoli avvenivano anche con
paesi lontani come l’India. Ciò è stato attestato dalle molte scoperte di
reperti romani in città indiane e da alcuni graffiti, risalenti al 6 d.C.
incisi da schiavi al servizio di mercanti capuani e puteolani, sulle pareti
della grotta di Wadi Minayh, nel deserto Orientale egiziano, nei pressi
dell’importante scalo commerciale di Berenice, tappa importante sulla via per
l’India.
Un
così attivo commercio fece sì che, nei primi secoli dopo Cristo, Capua avesse
un posto preminente fra tutte le città romane. Purtroppo,
verso la fine del 1 sec. d. C., con l’apertura della Via Domiziana, i traffici
capuani subirono un certo rallentamento e verso la fine del II sec. d. C.,
soprattutto per la concorrenza dei laboratori alessandrini, anche per la
produzione di profumi si interruppe quasi totalmente.
La
Seplasia e la folla degli avventori si erano dissolti; di essi rimaneva solo un
vago ricordo. Nella grande piazza, non più profumi, non più vita frenetica né
affari importanti.
Nonostante
la mancanza di questo commercio così importante per l’economia capuana, nei
secoli successivi, Capua fu considerata ancora una grande città, tanto che nel
IV sec. era citata all’ottavo posto fra le città dell’Impero, probabilmente per
la vendita dei prodotti ricavati dalla fertilità dei campi e dalla vocazione
agricola dei suoi abitanti.
La
grandezza della opulenta città campana iniziò a decadere quando l’Impero romano
subì invasioni ad opera dei Visigoti, nel 410 d. C., e dei vandali nel 455 e
anche Capua ricevette offesa: una buona parte delle abitazioni e i maggiori
monumenti subirono notevoli danni e alcuni furono completamente distrutti.
La
successiva caduta dell’Impero romano e le continue invasioni determinarono una
contrazione nella vita e nell’aspetto urbano della città. Nel
595 arrivarono i Longobardi che non modificarono nulla. Si adattarono a vivere
fra le rovine esistenti riutilizzando delle dimore romane danneggiate. Le loro
case, che mostravano qua e là qualche muro smozzicato, residuo di vecchie
costruzioni, avevano le pareti formate da ramaglia rivestita d’argilla, oppure
costruire in muratura il cui legame era ancora l’argilla; il tetto era
sostenuto da pali inseriti nella muratura o poggianti su basi di pietra:
insomma un tipo di edilizia decisamente molto povera.
I
Longobardi non erano uomini tranquilli: i nobili si contendevano, con le armi e
i tradimenti, i diversi feudi, e anche Sicardo, l’ultimo duca della ancora
tutta unita Longobardia Minore, finì assassinato da Radelchi, che gli usurpò il
trono e scatenò una guerra civile, durata dieci anni, combattuta da Siconolfo
fratello di Sicardo e, quindi, legittimo erede.
Durante
i primi anni del conflitto, nell’841, Capua venne distrutta dai Saraceni
inviati da Radelchi, e fu abbandonata dalla maggior parte dei suoi abitanti.
Pochi
anni dopo i maggiorenti decisero di costruire una nuova città e il maggior
lavoro svolto nelle aree in cui sorgeva l’antica metropoli, fu quello di portar
via i resti degli edifici abbattuti destinati, per la maggior parte, al
riempimento della zona paludosa su cui sarebbe sorta la nuova Capua ed in parte
usati per la costruzione di nuovi edifici.
La
spoliazione si protrasse per diversi secoli e della grandezza della antica Capua
rimasero poche testimonianze.
Nella
città devastata, la vita era quasi del tutto scomparsa. L’antico foro ridotto
ad un semplice spazio aperto: probabilmente in esso, e fra le rovine dei templi
e degli edifici che lo avevano circondato in un lontano e prospero passato,
pascolavano le greggi.
Anche
con l’avvento dei Normanni, sul principio degli anni Mille, la situazione di
degrado non mutò. I nuovi arrivati avevano altri interessi: curare il loro
insediamento in Aversa, e, nei decenni successivi, la conquista della Nuova
Capua e di altre terre. Per
oltre quattro secoli, la vecchia Capua fu relegata al ruolo di avamposto, di
presidio militare e guardia della nuova città.
Con
la venuta degli Angioini, nella seconda metà del XIII sec. alcune famiglie
nobili giunte al seguito del nuovo sovrano, presero alloggio nel casale; si
dice, per una maggiore salubrità dell’aria ed una minore umidità che nella
nuova Capua era notevole, e da quel momento, se pur lentamente, la città iniziò
a rinascere.
Gli
stessi re Angioini preferivano trascorrere i mesi estivi presso la Torre,
degnamente ripristinata, tanto che nel 1278, in essa nacque Re Roberto.
Non
ci sono documenti che fanno conoscere il mese e il giorno della sua venuta al
mondo.
L’anno
della nascita fu ricavato dalla seguente informazione: “poiché nel 2 del Mese
di Febbraio 1296 fu da padre cinto cavaliere, si rileva la sua età di diciotto
anni, e perciò nato nel 1278, battezzato, l’anno successivo, 1279, nella chiesa
di S. Maria Maggiore da Marino Filomarino (1252-1285), illustre arcivescovo di
Capua.
Roberto
d’Angiò fu molto legato alla sua terra natia, e dopo la sua ascesa al trono,
concesse ad Ingeranno de Stella, (arcivescovo di Capua dal 1313 al 1333), “che
ogni anno si potesse tenere una fiera in settembre nel giorno della festività
della Natività di Nostra Signora da durare cinque giorni, vicino la chiesa S.
Marie de Capua “sitam in Casali S. Herasmi prope ipsam Civitatem Caoue”, nella
quale chiesa gli era stato tenuto al sacro fonte battesimale.
Con
decreto del 1 ottobre 1315, emesso da Roberto d’Angiò, fu istituito il mercato
ospitato nell’antica piazza che da allora fino ad oggi ha conservato sempre lo
stesso nome: “Piazza del Mercato”.
Qualche
anno dopo, nel 1319, sul lato della piazza esposto a mezzogiorno, con un nuovo
decreto, Re Roberto, decise di far costruire, dedicandola a S. Lorenzo, una
Chiesa a tre navate per l’entrata principale aperta su piazza Mercato; ad essa
fu annesso un ospedale: “Nell’anno 1319 a richiesta ed insinuazione di
Bartolomeo di Capua, (il re Roberto d’Angiò) edificò in questo gran Casale di
S. Maria, la Chiesa ed Ospedale di S. Lorenzo, con assegnargli una ben pingue
rendita, col peso di maritare dieci donzelle ogni anno; e sino a oggi si vedono
sulla porta della chiesa l’effige di Roberto e di Sancia sua moglie,
coll’iscrizione de’ nomi loro; ed in questa Chiesa veniva spesso il re a
sentire la santa Messa.
Ma
oggi (1756 ca.) è padronato regio posseduto dalla famiglia de’ Duchi di
Piedimonte, coll’alternativa co’ Re di Napoli, per special grazia a tal
nobildonna Famiglia dai sovrani concessa”.
I
reali apparivano effigiati di fronte alla immagine di S. Lorenzo. Sulla destra,
il re Roberto che teneva fra le mani la chiesa e la offriva al Santo; sulla
sinistra la Regina Sancia, inginocchiata, in venerazione.
L’annesso
“Ospedale di S. Lorenzo, sito nella piazza Mercato, fu adibito, insieme alla
Chiesetta di S. Carlo, ad ospizio e giardino dai Padri Serviti, detti di
Gerusalemme, per essere lì medesimi, quelli del convento di S. Maria di
Gerusalemme al Montem, sul Casale di Bellona”.
L’ospedale
rimase attivo almeno fino al 1586; ma non si conosce né il come né il perché
della sua soppressione; i suoi beni passarono alla chiesa di S. Lorenzo e le
rendite furono percepite dai rettori e cappellani che si avvicendarono fino al
1810.
“La
Chiesa di S. Lorenzo, già parte integrante del detto ospedale, situata in mezzo
della Terra, è per la verità assai comoda ai forestieri, che in tre giorni
della settimana presso la medesima vengono a tenervi il mercato, ed hanno per
tanto il comodo di udire la Santa Messa, che ogni giorno non manca per obbligo;
ha il titolo di Badia”.
“Situata
in mezzo della Terra”, verosimilmente, può significare che tra la Chiesa di S.
Lorenzo, e i casali di S. Maria Maggiore, S. Pietro e S. Erasmo, vi era grosso
modo la stessa distanza e che non vi erano presenti altri edifici
significativi, e nello spazio dove si teneva mercato affluivano solo le strade
che collegavano fra loro i tre Casali.
La
fiera o mercato concessa da Re Roberto fu confermata da tutti i successivi
regnanti.
Infatti
il Re Ladislao con diploma del 18 ottobre 1401, concesse di potersi fare una
Fiera in S. Maria Maggiore nel giorno della Natività della Beata Vergine. Anche
durante il suo regno, il re Alfonso d’Aragona confermò poi il mercato per otto
giorni di settembre escludendo le tasse, eccetto il dazio. Successivamente, nel
1449, diede il privilegio del Mercato franco anche per il dazio.
Nei
primi anni del Novecento, l’aspetto della vasca venne rielaborato in forme più
armoniche; vi fu aggiunto un catino metallico, che tuttora fa bella mostra di
sé. La nuova fontana venne protetta da una cancellata in ferro battuto, alta
all’incirca 1 metro e mezzo, che racchiudeva anche delle aiuole.
Poco
distante dalla recinzione, una fontanella spandeva acqua per la pubblica
utilità. Successivamente, la cancellata venne modificata e abbassata, le aiuole
allargate, la fontanella eliminata e negli angoli della piazza furono
installati, in quattro aiuole circolari, altrettanti lampioni che diffondevano
luce dall’alto dei loro tre bracci pendenti verso il suolo.
Sui
lati della piazza, esposti a nord e a sud, furono montati due vespasiani in
cemento prefabbricato così utili agli avventori del mercato.
Sul
lato lungo corso Garibaldi, delimitato da una fila di basse colonne e da un
largo marciapiede, vennero installati due chioschi in stile primo novecento:
quello sull’angolo sud ospitò un acquaiolo, e sull’angolo opposto una rivendita
di giornali, sostituito nel 1935 da un distributore di benzina, eliminato in
tempi recenti.
Sullo
stesso lato, sotto la fila interna dei lecci, alcune panchine davano la
possibilità di prendere il fresco. Lo spazio centrale era ricoperto di ghiaia.
Il
mercato si svolgeva due volte a settimana: il giovedì e la domenica, anche se,
negli ultimi anni del loro regno i Borboni, a seguito delle lagnanze del clero
motivate dall’assenza dei fedeli alle funzioni domenicali, anticiparono al
sabato il mercato come spostarono al lunedì quello di Capua. Ma poiché “effettivamente
la disposizione regale ledeva gli interessi dei putecari (negozianti di
specifica merce), dei barzarioti (bottegai di generi diversi) e dei fanguttari
(venditori ambulanti)”
Il
Consiglio Comunale, nella seduta del 26.11.1862, deliberò il ripristino nel
giorno di festa e qualche mese dopo, il 15.02.1863, il Re Vittorio Emanuele II
decretò: “l’antico mercato settimanale, solito tenersi la domenica nel Comune
di S. Maria è stato poscia trasferito al sabato, è ora ripristinato di
domenica”.
Dal
1871 al 1890 la piazza era conosciuta come “Piazza del Popolo”.
Nel
1890, cambiò il nome in “Piazza Principe Amedeo” in omaggio ad Amedeo
Ferdinando di Savoia, (1845-1890), terzogenito del re Vittorio Emanuele II e di
Maria Adelaide d’Asburgo, venuto a mancare il 18 gennaio di quell’anno.
Dal
1947, con l’avvento della Repubblica, la piazza venne intitolata a Giuseppe
Mazzini.
Il
mercato si è svolto fino al 1966, quando, con una decisione presa anche con
l’appoggio dei commercianti locali, non più disposti a restare aperti di
domenica, venne spostato verso la periferia della città.
Nel
1978, la piazza subì alcuni cambiamenti: nel sottosuolo venne costruito un
garage ed il verde modificato seguendo criteri moderni: i lecci sono restati
sul lato est.
La
Chiesa di S. Lorenzo occupava, in parte, lo spazio ove oggi sorge il fabbricato
che, fino a poco tempo fa, ospitava il Commissariato di P.S. ed in parte la
strada ad esso prospiciente (inizio di corso Garibaldi).
Sul
lato opposto della strada si aprivano diverse botteghe di carni, le cosiddette
chianche, e varie pescherie.
Come
già sopra accennato, alla piazza si accedeva:
-
dal casale di S. Erasmo con l’attuale via d’Angiò, che raccordava in via Appia alla
piazza tramite il Vico Freddo, l’odierna via vetraia;
-
dal casale di S. Pietro che giungeva al mercato, collegando via Albana con via
M. Fiore. Successivamente, il percorso venne modificato con la costruzione
della strada dell’Angelo Custode (oggi via Gallozzi).
-
dal casale di S. Maria Maggiore, la strada arrivava in piazza Mazzini
percorrendo il Vicolo del Mercato, “la cui angustia diviene permanente causa di
impedimento e di disordine al libero transito”. Vale a dire, era così stretto
che le carrette vi transitavano con difficoltà per avere l’idea basta ricordare
il vicoletto che, ancora oggi, dalla piazza con leggera pendenza, scende a via
Gramsci.
Verso
il 1870, per allargare la sede stradale e rendere quindi possibile il
collegamento del Corso Francesco II, costruito nel 1859, con la strada
proveniente da S. Andrea dei Lagni, cioè via della Croce (oggi via A. S.
Mazzocchi) che passava per la Piazza Maggiore (oggi p.za Matteotti), la Chiesa
di S. Lorenzo, venne ridotta di dimensioni con l’abbattimento di una navata e
della facciata. Successivamente tra il 1878 – 1880, completamente demolita.
Direttore
dei lavori di abbattimento era stato nominato, il 10 maggio 1876, l’ingegnere
Francesco Sagnelli, nostro concittadino.
Sul
suolo divenuto, così, disponibile, venne realizzato, su ordine del Comune, e
sul progetto dell’Ing. Nicola Parisi, un edificio composto da un piano terra e
un primo piano, da adibire a pubblici uffici.
Il
lavoro di costruzione, iniziato nel 1881 e completato nel 1883, venne eseguito
dalla impresa edile Francesco Iacuariello di Napoli.
Purtroppo,
pochi anni dopo, verso il 1891, nel fabbricato si verificarono delle lesioni
seguite da alcuni crolli e quindi si dovette provvedere alle necessarie
riparazioni. Dopo aver citato per danni l’impresa appaltatrice e l’Ing.
Progettista, il Comune affidò i lavori di restauro all’Ing. Gennaro Saccone ed
alla Ditta Raffaele Troiano.
Quando
i lavori furono completati, l’edificio reso agibile, ospitò gli Uffici delle
regie Poste e Telegrafi, la Pretura (che prima era ubicata nella Piazzetta), ed
anche la Banca Popolare Garibaldi. Durante il periodo fascista, fu la casa del
Fascio, e dopo la II Guerra Mondiale divenne la sede del Commissariato di
Pubblica Sicurezza.
Al
piano terra ospitò circoli e botteghe; successivamente otto porte furono
trasformate in finestre e la nona, cioè quella centrale divenne l’ingresso agli
uffici della P. S.
In
corrispondenza dell’ingresso posto al centro, tuttora, si innalza una torretta,
nella quale, era collocato un orologio, ora non più esistente.
Il
Primo Ottobre 1913, 53° anniversario della battaglia del Volturno, con una
solenne cerimonia, una iscrizione su marmo venne collocata sulla facciata
dell’edificio.
Dettata
da Raffaele Perla, (laureato in Giurisprudenza, giudice del Tribunale di
Napoli, libero docente di Storia del Diritto presso l’Università di Napoli, uno
dei principali elaboratori del Codice Penale, Presidente del Consiglio di
Stato, estensore del Codice della Navigazione, ecc.) fu scolpita dallo scultore
Raffaele Uccella, entrambi nostri illustri concittadini.
La
lapide vuole ricordare le sofferenze dei molti cittadini sammaritani che, fin
dai primi tempi, si adoperarono attivamente per la causa del Risorgimento
Italiano.
Per
celebrare l’avvenimento, la sera dello stesso giorno nel Teatro Garibaldi si
tenne una conferenza riassuntiva del Risorgimento Sammaritano. Il
marmo restò al suo posto per oltre trenta anni. Dopo l’ultima guerra, venne
spostata e sistemata sul lato dell’edificio, che si apre verso la piazza.
Proseguendo
lungo lo stesso lato della piazza, facilmente si può osservare che i quattro
palazzi ivi esistente non hanno l’ingresso sulla piazza. Tra di essi, il più
significativo è il Palazzo Auriemma la cui costruzione iniziata nel 1899, fu
completata nei primi anni del novecento, e mentre la facciata in stile liberty,
fa bella mostra di sé in piazza, l’ingresso si apre su via Gramsci (ex via
Vittorio Emanuele).
Sull’area
occupata dal Palazzo Auriemma, e invadendo parte dello spazio di piazza Mercato,
sorgeva il Teatro “Arena Nazionale”, di proprietà di Pietro Boschi nativo di
Roma. Costruito su progetto dell’Ing. Pietro Tramunti, nativo della città,
venne inaugurato il 6 giugno 1822.
“Grazie
ad una relazione stilata nel 1876 dall’arch. Tommaso Matarazzi, incaricato dal
Comune di verificare lo stato di consistenza del teatro, originariamente di
proprietà di Pietro Boschi, siamo in grado di farne una sia pur sommaria
ricostruzione.
Dall’ingresso
posto in via S. Lorenzo, si accedeva in un androne quindi in un corridoio,
attraverso il quale si scendeva nella platea; questa, pavimentata in legno,
conteneva dieci file di sedie di ferro, per cento posti a sedere; la sala
comprendeva anche tre ordini di palchi e poteva contenere una quarantina di
persone; mediante le scalette si saliva agli ordini superiori fino alla
galleria; complessivamente, quindi, poteva contenere intorno ai
duecentocinquanta spettatori. Ai lati del palcoscenico, anch’esso in legno, vi
erano due camerini e le quinte. La copertura della platea era fatta con travi e
tegole ed aveva al centro un aeratore, mentre quella del proscenio era
costituita da un lastricato. Il piccolo teatro ospitò comici e compagnie di
grido ed ebbe spettatori illustri come Francesco i e la moglie Isabella, Ferdinando
II e Gaetano Donizetti”.
Altre
notizie interessanti sul teatro le troviamo negli scritti di Fulvio Palmieri.
Nel Teatro Boschi, egli scrive: “Gaetano Donizetti, durante la permanenza nel
Meridione, vi dirigeva quando si davano le sue opere. In quel tempo quando per
la festa di S. Gennaro si chiudevano i teatri a Napoli, le migliori compagnie
liriche e di prosa si trasferivano a S. Maria (in particolare quella del
Fiorentini: Sadoschi, Alberti-Pieri, Maioroni, ecc.) e la città assurgeva a
capitale teatrale del Regno. Nel Boschi i sammaritani applaudirono i comici
dell’epoca: Antonio Petito, De Angelis, di Napoli, ecc”.
Il
teatro venne demolito, nel 1895, dopo l’ultimazione del Teatro Garibaldi,
dando, così un nuovo aspetto alla piazza.
In
uno dei locali al piano terra del detto palazzo Auriemma, si apriva, fino a
pochi anni fa, una pizzeria: la Pizzeria “Pesce d’Oro” gestita dal Sig. Michele
Marrone che si vantava, a ragione, di aver ospitato ai suoi tavoli anche
Raffaele Viviani e salvatore Di Giacomo.
Adiacente
al Palazzo Auriemma, un sottoportico detto popolarmente “U Vicariello” unisce
p.za Mazzini con via A. Gramsci. La parete di sinistra del vicoletto, per chi
scende dalla piazza verso la suddetta strada, ospita una edicola dedicata alla
Madonna di Montevergine. La sacra immagine fu dipinta su una tavola di legno da
mano ignota e con colori alquanto scuri, , verosimilmente, potrebbe appartenere
al corredo dell’antica chiesa di S. Lorenzo demolita fra il 1878-1880, (è
soltanto una ipotesi non avendo alcuna documentazione in merito). Infatti la
fattura dell’opera sembra risalire a molto prima del tempo in cui fu sistemata,
verso il 1908, nella edicola lignea, dove tutt’ora si trova.
La
tradizione vuole, che questa sacra immagine sia dispensatrice di grazie. La
Madonna di Montevergine, non ha mai negato la grazia richiesta a coloro che,
con fede, a Lei si sono rivolti.
Un’antica
iscrizione dipinta e non incisa, sulla parte lignea, oggi modificata, invitava
il passante alla recita di una Ave Maria come segno del rispetto dovuto alla
madonna.
Attualmente
la scritta su legno non c’è più, né vi è traccia di un’altra scritta incisa su
candido marmo, sostituito, a sua volta, da una piccola targa affissa nella
parte inferiore dell’edicola che ricorda l’ultima sistemazione avvenuta nel
2008.
Col
passare del tempo, la parete, su cui era collocata l’edicola votiva, incominciò
a risentire gli effetti degli agenti atmosferici e delle continue piccole
perdite di fumo che il comignolo del forno dell’attigua pizzeria, puntualmente
mandava verso il cielo, tanto che a stento il passante intravedeva la sacra
immagine.
Pur
tuttavia, anche con l’edicola ridotta in quello stato, la Madonna continuava ad
essere oggetto di devozione: un fiore veniva spesso deposto presso il tempietto
da parte dei commercianti locali, ed in particolare da Carlo Amato,
commerciante di pesce che apriva la sua bottega poco lontano dell’angiporto,
familiarmente chiamato Carluccio dalla maggior parte della sua clientela.
Carluccio, assai devoto alla Madonna di Montevergine, ritenne opportuno
ripristinare la sacra edicola e negli anni successivi si prodigò affinché, in
onore della Madonna, venisse istituita una festa, da svolgersi nella piazza con
la dovuta solennità, creando un apposito comitato di cui fu presidente.
Nei
primi tempi le luminarie si accesero solo sulla facciata del vicoletto
antistante la piazza; nei successivi anni esse furono installate su due lati
della piazza, poi su tutta la piazza. La
devozione di Carluccio ha permesso di far scoprire questo angolo dimenticato
della nostra città, ottenendo un notevole riscontro della sua iniziativa con la
partecipazione non solo del popolo del Mercato ma di buona parte del popolo
sammaritano. Oggi,
Carluccio non è più fra noi. Ma il suo ricordo rimane indissolubilmente legato
a questa semplice e spontanea manifestazione di fede e di affetto per la sua e
nostra Madre Protettrice: la Madonna di Montevergine.
Nello
spazio tra il suddetto vicolo ed il Palazzo Di Monaco, ora Foglia, sotto il
dominio spagnolo prima e sotto i Borbone poi, avevano luogo le esecuzioni
capitali dei condannati con la decapitazione per i nobili, mentre la forca era
riservata ai plebei. Il
16 dicembre 1823 furono eseguite, le condanne “alla pena di morte con laccio
sulle forche da subirsi nella piazza di questo Comune detta il Mercato” di
Pietrantonio de Laurentiis di anni 30 e Giuseppe Carrabba di anni 52, con
l’unica accusa di essere presunti affiliati alla Carboneria, appartenenti alla
setta detta degli “Escamiciati”, durante i movimenti rivoluzionari del 1820.
Nella
piazza, le ultime condanne furono eseguite nel 1826.
Subito
dopo si incontra il palazzo Matarazzi, risalente alla fine del Seicento. È un
edificio che presenta un solo piano elevato adibito ad abitazione. Gli ambienti
sulla strada erano usati come negozi mentre i locali interni ospitavano una
conceria. Nessuna
rilevanza architettonica quindi, ma edificio importante per la storia della
nostra città perché è una testimonianza delle nefandezze compiute dalle truppe sanfediste
durante la repressione della Repubblica Partenopea.
La
triste vicenda viene ricordata da una lapide anch’essa dettata da Raffaele
Perla ed ivi collocata nel 1913:
IN QUESTA CASA
CONVEGNO DI PATRIOTI
FIN DAI PRIMI ALBORI DEL RISORGIMENTO
NEL 1799
DEPREDATA ED ARSA DALLE ORDE SANFEDISTE
FU TRUCIDATA LA FANCIULLA TERESA RICCIARDI
SOTTOPOSTA AD ATROCI TORTURE
IL CITTADINO GAETANO MATARAZZI
I DISCENDENTI
VI ACCOLSERO
ESULTANTI NEL 1860
LE MILIZIE E LE ARMI LIBERATRICI
La
fanciulla Teresa Ricciardi, di circa 14 anni, per le ferite riportate il 14
giugno 1799, dopo una atroce agonia, ma con il conforto dei sacramenti, morì il
17 giugno. Venne tumulata nella chiesa della Congregazione Ave Grazia Plena
dell’Annunziata, attigua al Duomo, chiesetta demolita nel 1876, quando fu
risanata e risistemata piazza Mazzocchi.
Poco
distante dal palazzo suddetto, sorgeva, fino al 1963, un altro palazzetto,
(palazzo Margarita poi Matarazzo) anch’esso ad un piano, risalente alla fine
del Seicento. Al suo posto oggi sorge un moderno fabbricato con cemento armato,
di nove piani, che fa angolo con via Vetraia. Nel vecchio palazzetto, proprio
sul detto angolo, vi era una edicola con la sacra effige di una Madonnina,
risalente all’epoca della costruzione dell’abitazione primitiva, dipinta su
legno, di buona fattura, allocata in una artistica cornice di marmi pregiati,
cara alle premure degli operai della vetreria operante poco distante, i quali
per devozione ogni giorno l’ornavano con fiori freschi. E ancora oggi,
l’edicola, rimessa al suo posto dopo la costruzione del moderno palazzo, anche
se senza più la primitiva cornice di marmi pregiati, è oggetto di cure da parte
della popolazione locale.
Sul
lato nord della piazza, dove confluisce via Vetraia, fino a qualche decennio fa, si apriva una
rivendita di vino. Durante i giorni della festa del 15 agosto, nel cortile del
fabbricato addobbato con fiori di carta rossi e bianchi modellati come grandi
gigli stilizzati, venivano allestititi dei tavoli per la degustazione di brodo
di polipo e della impepata di cozze servita in un piatto sul cui fondo erano
adagiate delle freselle impregnate di un sugo rosso piccantissimo: puro
estratto di peperoncino.
Dopo
alcuni fabbricati, si presenta alla vista un lato del palazzo Morelli, un buon
esempio di architettura della seconda metà dell’Ottocento, che apre il suo
ingresso sul corso Garibaldi.
L’attuale
corso Garibaldi fino al 1858 non esisteva. Per la sua costruzione vennero
abbattuti alcuni palazzi che insistevano in quegli spazi. La nuova strada
avrebbe collegato la “Piazza del Mercato con Real Camino che da Caserta porta a
Capua. L’opera, venne dedicata al re, Ferdinando II ed inaugurata nel giorno
del suo onomastico il 4 ottobre 1859.
Nella
piazza venne “eretto il palco per le autorità sul quale svettano le effigi dei
regnanti.
Rende
gli onori la fanfara del 2° Dragoni, tra lo sfavillio di 500 lumi a sego e lo
sparo di mortaretti. Per l’occasione viene fatta una distribuzione gratuita di
pane ai poveri”.
In
piazza Mercato si svolgevano sia le cerimonie pubbliche, fra esse si ricorda il
giuramento prestato dagli ufficiali della Guardia Nazionale il 6 ottobre 1861
alle ore 5 p.m., sia le feste, in occasioni di reali avvenimenti, la prima
delle quali compiuta nel maggio del 1738, in occasione del matrimonio per
procura di Carlo, re di Napoli e di Sicilia con Maria Amalia Cristina figlia di
Augusto III di Sassonia. La principessa, lasciata la corte di Dresda, arrivò ai
confini del Regno napoletano il 19 giugno accolta dal marito. L’Università di
S. Maria non poté sottrarsi ai festeggiamenti di un simile evento; essi
durarono tre giorni, al termine dei quali nella piazza del Mercato si tenne
“una giostra”.
La
piazza fu opportunamente sistemata, rimuovendo il fango esistente e
sistemandovi un tavolato di “ginelle” (travetti di castagno) tenute insieme da
“foginelle” (piccole funi).
Trenta
anni dopo, nei giorni 12, 13,14 maggio 1768, si festeggiò l’arrivo, , nel regno
di Napoli, della moglie del re Ferdinando IV, la principessa Maria Carolina di
Sassonia anch’essa sposata per procura il 17 aprile dello stesso anno e
conosciuta di persona al suo arrivo ai confini del regno nei pressi di Fondi.
Nella stessa giornata del 12 maggio, i novelli sposi giunsero alla Reggia di
Caserta, e vi trascorsero la luna di miele.
Ogni
anno, sul finire della fiera di settembre, si svolgeva in piazza la caccia alla
bufala.
La
caccia consisteva nel rincorrere e/o farsi inseguire, nella piazza recintata,
da bufalotti o bufale pungolate da arnesi, (denominati “mazze ferretti”
manovrate dai cacciatori), e addentate da cani mastini aizzati contro di esse.
Una esibizione che si svolgeva tra l’abbaiare furioso dei cani ed il muggire
degli animali impazziti dal dolore. Uno spettacolo che certamente non aveva
niente a che vedere con le classiche eleganti corride spagnole, e che si
rivelava solo rozzo e cruento.
Alla
caccia del 25 settembre 1801, assistettero il re di Sardegna Carlo Emanuele e
la consorte Maria Adelaide, Questo avvenimento è ricordato da una lapide
marmorea apposta sulla facciata del palazzo Cusano – Tartaglione (oggi
Palladino), dove appunto i due principi furono ospitati e videro lo spettacolo
da un balcone che, circa 60 anni dopo, nel 1858, venne abbattuto per la
costruzione del Corso.
Sulla
destra del portone d’ingresso una piccola lapide marmorea tramanda
l’avvenimento.
(Traduzione
della lapide marmorea: - A Carlo Emanuele re di Sardegna e all’augusta consorte
Maria Adelaide, poiché il 25 set. 1801 vennero in questo palazzo e lo
riempirono delle loro maestà, per assistere per diletto alla caccia alla
bufala, antico divertimento dei Campani, Mattia tartaglione Cusano e la moglie
Tommasina dell’Uva Vigna, famiglia patrizia campana, fecero deporre questa
lapide a testimonianza di tanto onore, col permesso di nostro signore
Ferdinando IV padre della patria con diploma firmato nello stesso anno il 12
dicembre.
Su
questo lato della piazza, degno di nota, insiste il Palazzo Fossataro. Così lo
descrive l’attento prof. A. Percone Licatese: “… è il prodotto della
sopraelevazione e dell’ingrandimento di un edificio settecentesco: nel
prospetto, scandito da sei lesene ioniche, si notano al piano nobile, il
balcone centrale più grande e cinque più piccoli, sormontati da timpani, al secondo
piano e sei balconi sono tutti uguali; sul lato sinistro sembra aggiunto un
corpo costituito da una stanza per piano; molto ampi il portone d’ingresso che,
pertanto risulta decentrato, ed il cortile interno.
Oggi
è la sede della “Banca di Sconto e Conti Correnti”, costituita, con atto del
notaio Francesco Mandara, l’11 Agosto 1904, come Società in Accomandita
Semplice, con un capitale di Lire 55.000, ma Alessandro Fossataro, Raffaele
Teti – Gazzero ed Eduardo De Mauro. Il 30 dello stesso mese entrò a far parte
il Sig. Gaetano Cappabianca con un capitale di Lire 20.000. Nel
1909, il primo gennaio, fecero parte del gruppo e fratelli Giuseppe, Francesco
e Pasquale Fratta e la Banca divenne Società in Nome Collettivo, Fossataro
& Fratta.
Nel
1931, estintosi il ramo Teti-Gazzero, subentrarono i Sigg. Francesco, Gaetano e
Pasquale Peccerillo, nipoti di Gaetano Saraceni. Nel
1947 l’ultimo socio fondatore, Eduardo De Mauro, che era stato direttore per 43
anni, concluse la sua esistenza terrena. Il
6 marzo 1975, la banca divenne Società per Azioni con capitale di 700 milioni
di lire. Ne fu amministratore delegato il dott. Alessandro Fossataro, nipote
del primo Alessandro.
Nel
1983 i soci Fratta, si allontanarono e fecero ingresso nuovi soci.
Dopo
il palazzo Fossataro ed il successivo palazzo Campanelli, si apre la via
intitolata a Federico Pezzella, insigne magistrato sammaritano.
La
via insiste sull’area di un palazzo seicentesco demolito nel 1974 per creare un
adeguato accesso all’allora costruendo nuovo Tribunale. Nello
spazio ricavato, occupato oggi in parte dalla strada ed in parte da un moderno
fabbricato, venne alla luce una abitazione del periodo imperiale romano.
Una
parte della “domus” si trova al di sotto del livello stradale; l’altra parte è
visibile dal porticato del palazzo costruito su di essa: si tratta di un “impluvium”
del II sec. d.C., con una fontana a piramide tronca posta al centro della vasca
che mostra alcune nicchie e qualche base di colonne.
In
piazza Mazzini, si svolgevano alcune importanti feste religiose, e almeno due
sono da ricordare per la massiccia e sentita partecipazione del popolo:
-
la Festa del Corpus Domini. In tale occasione si allestiva un altare temporaneo
nel “pubblico Mercato per fare al popolo la Benedizione del Santissimo e per le
Autorità Amministrative che hanno seguito la processione”.
-
la Festa della Madonna Assunta che in questa piazza aveva il suo momento
culminante. È una festa molto antica. Si ricorda, infatti, che nel 1452, in
questo stesso giorno, il re Alfonso I d’Aragona assistendo alla sacra funzione,
fece spiegare le sue bandiere nella Chiesa di S. Maria Maggiore.
Oltre
alle celebrazioni pubbliche e religiose, la piazza accolse anche festeggiamenti
civili. Infatti, fin dagli anni 80 dell’Ottocento, così come a Capua, anche a Santa
Maria si festeggiava il Carnevale che resistette, con una ultima grande
manifestazione, fino al primo decennio del Novecento. Ogni anno, per l’occasione
di questa allegra e spensierata festa, la piazza si riempiva di bancarelle,
chioschi, e tendoni vari e gli spettacoli dei saltimbanchi, dei mangiatori di
fuoco, dei burattinai, si avvicendavano fino a sera, fino all’arrivo dei carri.
Il
Carnevale lasciò posto alla Piedigrotta Sammaritana, voluta, almeno nei primi
tempi, dalla spontaneità artistica e fantasiosa di cittadini amanti dell’allegria
e della spensieratezza.
Venivano
costruiti dei carri allegorici, ideati e allestiti da maestranze locali. Su di
essi, fra fiori e luci multicolori, cantanti e soubrette interpretavano un
repertorio di canzoni, spesso, scritte e musicate dai nostri concittadini.
Dopo
aver sfilato per il corso Garibaldi, fra suoni di trombette, tamburelli ecc.,
canti e l’allegro vociare del popolo in festa, la sfilata si concludeva in
Piazza Mazzini. La
Piedigrotta Sammaritana prese l’avvio nel settembre del 1923 e continuò
puntuale fino allo scoppio della II Guerra Mondiale.
Nel
1948 la manifestazione ritornò in auge e vollero partecipare alla
manifestazione, con i loro carri e con le melodie appositamente composte per l’avvenimento,
anche gli studenti universitari. Nell’aprile del 1949 gli studenti concepirono
un carro rappresentante un veliero che aveva nome “Goliardia” e il carro s’intitolava
“La navicella del nostro ingegno”.
La
Piedigrotta si tenne fino al 1955. Poi subentrarono nuove idee e S. Maria, per
oltre un decennio, fu il palcoscenico di varie manifestazioni quali: Luglio
canoro, Anfiteatro d’oro, ecc., Manifestazioni molto apprezzate, che videro l’avvicendamento
dei più noti presentatori televisivi del momento: Corrado, Pippo Baudo, ecc. e
artisti del calibro di Ninì Rosso, il trombettista idolo di tutti i suonatori
di tromba, che faceva incantare le folle con il suo “Silenzio fuori ordinanza”,
un brano musicale che si ascoltava sempre in religioso silenzio, e con “ Il
Volo del calabrone” di Rimskij-Korsakov, esempio di straordinaria bravura
tecnica…
Anche
avvenimenti meno graditi accaddero nella piazza, o nelle vie ad essa più
prossime, fin dai tempi molto antichi.
Secondo
una tradizione corrente, sembra che nella Seplasia venne martirizzato (lapidato
o pugnalato) il primo vescovo di Capua, San Prisco, che giunto nella città al
seguito di S. Pietro, governò la prima Chiesa capuana per oltre 20 anni dal 42
o 44 d.C. L’assassinio
fu compiuto su istigazione dei sacerdoti del tempio di Diana Tifatina, i quali,
per il lavoro svolto da questa santa persona, avevano visto diminuire la loro
influenza sul popolo.
Il
santo vescovo, venne, poi, sepolto in un cimitero fuori Porta di Giove, nei
pressi della via Acquaria così detta perché correva lungo l’acquedotto Giulio,
che proveniente dai monti circostanti, portava l’acqua all’antica Capua.
Il
18 settembre 1922, in piazza Principe Amedeo, ebbe luogo un episodio di lotta
politica.
Il
Prof. Alberto Perconte così lo descrive “La sera prima si era tenuta nel teatro
Garibaldi una manifestazione fascista… Ad alcuni partecipanti che si
ritiravano, sulla via di Caserta fu teso un agguato ed alcuni furono feriti da
colpi di rivoltella. La rappresaglia fu immediata: i fascisti sammaritani convennero
in piazza Amedeo ed assalirono la sede della Camera del Lavoro e del PSI, dando
fuoco in piazza alle suppellettili ed alle carte.
Ristabilito
l’ordine dalla forza pubblica, il giorno dopo una seconda aggressione a due
fascisti scatenò una furibonda reazione. Appena terminata la seduta del
consiglio comunale, che aveva eletto sindaco il fascista Liguori, le squadre d’azione
di Capua, Caserta e Maddaloni, percorsero in corteo le vie della città,
inneggiando al fascismo e al Duce e giunte in piazza Amedeo, ingaggiarono una
vera e propria battaglia con i socialcomunisti che lì si erano raggruppati.
Numerosi furono in quella occasione i feriti e gli arrestati”. La vicenda
apparve sulle pagine de Il Mattino 20-21 settembre 1922.
Gli
ambienti a piano terra del palazzo, all’angolo fra corso Garibaldi e piazza
Mazzini, sono la sede di un bar che aprì i suoi battenti molti anni fa, (credo
che siamo prossimi al centinaio).
In
una calda serata dell’estate 1944, quando la guerra ormai si allontanava dalle
nostre città e la vita cominciava a rifiorire, alcuni soldati americani, di
stanza nelle retrovie a S. Maria (la nostra città ospitava i depositi della
Croce Rossa, e i soldati alleati che avevano combattuto in prima linea sul
fronte di Cassino), disturbarono con parole e gesti alcune signore o signorine
che, nei pressi del bar, gustavano un gelato. Un solo segnale, una sola parola
e tutti gli uomini seduti ai tavolini del locale scattarono in piedi: tavoli e
sedie finirono sulle teste e sulle spalle dei malcapitati militari. La grande
confusione fece accorrere la MP, che aveva sede presso i locali a piano terra
del Palazzo del Tribunale, ma i poliziotti militari non poterono far altro che
portare via i loro ammaccati e doloranti commilitoni. Non c’era nessun segno
della zuffa avvenuta pochi minuti prima. Tavolini e sedie erano al loro posto e
i presenti erano piacevolmente intenti a consumare quanto ordinato. I militari,
ubriachi, erano caduti producendosi da soli le visibilissime escoriazioni.
(Autore: Salvatore Fratta)
Con decreto del 1 ottobre 1315, emesso da Roberto d’Angiò, fu istituito il mercato ospitato nell’antica piazza che da allora fino ad oggi ha conservato sempre lo stesso nome: “Piazza del Mercato”.
Qualche anno dopo, nel 1319, sul lato della piazza esposto a mezzogiorno, con un nuovo decreto, Re Roberto, decise di far costruire, dedicandola a S. Lorenzo, una Chiesa a tre navate per l’entrata principale aperta su piazza Mercato; ad essa fu annesso un ospedale: “Nell’anno 1319 a richiesta ed insinuazione di Bartolomeo di Capua, (il re Roberto d’Angiò) edificò in questo gran Casale di S. Maria, la Chiesa ed Ospedale di S. Lorenzo, con assegnargli una ben pingue rendita, col peso di maritare dieci donzelle ogni anno; e sino a oggi si vedono sulla porta della chiesa l’effige di Roberto e di Sancia sua moglie, coll’iscrizione de’ nomi loro; ed in questa Chiesa veniva spesso il re a sentire la santa Messa.
L’ospedale rimase attivo almeno fino al 1586; ma non si conosce né il come né il perché della sua soppressione; i suoi beni passarono alla chiesa di S. Lorenzo e le rendite furono percepite dai rettori e cappellani che si avvicendarono fino al 1810.
Il mercato, importantissimo per l’economia del Casale, si teneva ogni giovedì, nello spazio del foro un tempo pavimentato, ora invece nudo, polveroso o fangoso a seconda delle stagioni, e in questo stato restò per molti secoli, tanto che ancora “nel 1806, la piazza del Mercato era molto simile al piazzale antistante l’Anfiteatro: il suolo era in terra battuta, in più parti ineguale ed infossato a causa dell’intenso traffico che in esso confluiva dall’intera città attraverso i varchi posti nei quattro angoli: non c’era la Fontana dei Leoni, ma un canale di scolo con acque putride spesso ristagnanti”.
Nel 1829, si ritenne opportuno migliorare lo stato della piazza e lungo tutto il suo perimetro furono messi a dimora una doppia fila di alberi di lecci, ombrosa e fresca cornice all’ampio quadrato centrale che ospitò, progettata dall’Arch. Giovanni Patturelli, una fontana: la Fontana dei Leoni.
Le sculture, quattro leoni accovacciati disposti diametralmente, furono scolpiti da Angelo Solari, “scultore di marmo in Napoli”. “I leoni arrivano a S. Maria nel dicembre di quell’anno, in quattro casse di legno di pioppo, e sistemati al centro della fontana da due scultori venuti in seguito”.
La vasca a pianta circolare fu realizzata dalle maestranze degli appaltatori Domenico Fagiani e Giuseppantonio Uggini che provvidero alla “mettitore in opera di tutti i travertini, Marmi di Mondragone e Pietra nera del Vesuvio”. I lavori in travertino “della Cava di Bellona” furono eseguiti del maestro scalpellino Andrea Galeno.
(Autore:Salvatore Fratta)
*Piazza San Francesco d'Assisi
L’impianto della piazza fu progettato nel 1835.
I lavori iniziarono l’anno seguente. Nel 1839, fu migliorato il regio cammino formando una piazzetta rotonda. L’assetto stradale definitivo, che appare ancora oggi, venne realizzato alcuni anni dopo, tra il 1851 e il 1858. Successivamente, nel 1876, il Comune incaricò l’architetto Vincenzo Lastaria per la sistemazione del tratto stradale che dal largo del corso Adriano, andava verso l’Anfiteatro, costruendo “due marciapiedi ed altre opere di miglioramento onde evitare il gran polverio che si eleva da esso …”.
La piazza venne intitolata a S. Francesco d’Assisi nel 1926.
(Autore:Salvatore Fratta)
Il Casale di S. Pietro non fu interessato da uno sviluppo demografico ed urbanistico uguale agli altri due casali di S. Maria, i quali, verso la fine del 1500, si erano riuniti costituendo un unico centro.
S. Pietro, invece, ospitò sempre pochi abitanti, tanto che, nel 1804, mentre S. Maria Maggiore ne aveva circa 8.400, la popolazione del Casale superava di poco i 2000 residenti, dediti all’agricoltura ed all’artigianato le cui tracce si possono ravvedere nel nome di via dei Ramari.
Il casale si sviluppava intorno alla piazza ed alle seguenti strade: la via Appia, la già citata via Ramari, le cui modeste abitazioni erano ubicate quasi tutte sul lato verso est mentre sul lato ovest, si aprivano ampi giardini, via Marotta, via S. Gennaro, e la parte di via Albana più prossima alla piazza suddetta. Verso il 1810 venne completata l’unificazione della cittadina, e pertanto S. Pietro divenne un rione di S. Maria Maggiore. Più o meno negli stessi anni venne edificata la chiesa attuale completata verso il 1860.
Nel 1887 furono modificati gli spazi della piazza secondo il progetto redatto dell’Ing. Emilio Santillo. Il piano stradale venne portato allo stesso livello della strada adiacente.
Al centro della piazza fu costruito un ampio marciapiede semicircolare ed in esso venne sistemata un’aiuola, recintata da una cancellata in ferro battuto. Il tutto era illuminato da un lampione. Poco distante, in una edicola in muratura, una fontana pubblica forniva acqua agli abitanti.
Qualche tempo dopo, l’edicola fu eliminata, sostituita da una fontana fusa in ghisa posizionata al centro della piazza. Nel 1926, una nuova modifica: nell’area dell’aiuola venne sistemata l’artistica fontana già allogata in piazza Mazzocchi, rimossa dal sito originario per fare spazio al costruendo monumento ai Caduti della Grande Guerra.
La fontana, circondata da una nuova aiuola, fu cinta da una cancellata più grande della precedente: i lampioni diventarono due posizionati diametralmente. Al posto della fontana pubblica venne impiantato un vespasiano. Qualche anno dopo furono eliminati sia il vespasiano che la cancellata.
Nel 1954, dopo le già accennate indagini archeologiche effettuate dal Prof. De Franciscis, tolta la fontana e l’aiuola, l0ivellato l’intero piano stradale, nella piazza venne costruita una stazione per gli autobus, che assolse il suo compito per circa un trentennio.
Negli anni 1982 – 83, la stazione venne eliminata, fu esplorato nuovamente il sottosuolo con scavi effettuati dal Prof. Johannowsky, fu rimessa al suo posto la fontana che, per tutto il tempo trascorso, era stata relegata e mai messa in funzione in uno spazio fra le case di via Perla.
La piazza, abbellita con piante di varie specie, attualmente offre una visione piacevole e decorosa.
I palazzi che insistono sulla via Appia, oggi c.so A. Moro, sono stati, quasi tutti, costruiti durante gli anni dell’Ottocento.
Sul lato sinistro della chiesa ubicata nella piazza, sorge un caseggiato forse attribuite alla fine del Seicento o al principio del secolo successivo. Versa purtroppo in condizioni di totale abbandono e degrado.
Il palazzo che sorge di fronte alla chiesa, sull’altro lato della piazza, all’angolo formata da c.so Moro, come si evince dalla scritta sul portale, fu innalzato nel 1754 ed era conosciuto come palazzo Sammartino. In origine era ad un solo piano e fu sopraelevato dopo il 1930. Durante questi lavori, alcune delle finestre originarie, sormontate da timpani racchiudenti una valva di conchiglia, vennero trasformate in balconi.
A destra di questo palazzo, si apre via Albana, così denominata perché alcuni studiosi, senza prove convincenti, ritennero che in quegli spazi fosse ubicata la “Aedes Alba”, la Casa Bianca, l’edificio della Curia dell’antica Capua, il luogo, cioè, dove il Senato Capuano teneva le riunioni ufficiali. Sembra che l’edificio fosse tutto rivestito di marmo bianco: di qui il nome. La Aedes Alba nell’antica Capua certamente c’era, ma non si conosce la sua esatta ubicazione.
Dalla piazza, la strada, intitolata allo statista A. Moro, procede verso oriente. Tuttavia essa non ripercorre con esattezza il tracciato dell’antica Appia, il cui percorso, a qualche decina di metri più a nord, è riscontrabile nei pochi metri in linea retta parte di via S. Gennaro (ora via Porta Giove). Continuando, la via arriva fino al ponte di S. Prisco, dove si apriva una delle porte della città.
Essendo via S. Gennaro stretta e tortuosa, nel 1835 si aprì, a poca distanza, una nuova e diritta strada per evitare che il re Ferdinando II, transitando per la suddetta via, potesse incorrere in un ipotetico attentato, quando, partendo dal palazzo reale di Caserta, desiderava raggiungere la tenuta di Carditello o inoltrarsi nei Mazzoni per una battuta di caccia. Per costruire questo tratto di strada, furono tagliati, letteralmente, alcuni palazzi e anche l’abside della piccola chiesa che apre i suoi battenti in via S. Gennaro.
La chiesetta, intitolata alla “BEATA VERGINE MARIA DELLE GRAZIE fu realizzata da Francesco Casertano che eseguì le disposizioni testamentarie del Sacerdote Tiburzio Salzillo il quale volle destinare i suoi beni, per la costruzione del sacro edificio, e “per il maritaggio di zitelle povere del Casale di S. Pietro in Corpo: sei fanciulle povere ma di onesti costumi”. Così ci tramanda il Granata.
La chiesa fu consacrata il 12 dicembre del 1734 dall’arcivescovo Mondilla Orsini.
Nel 1852, l’edificio dovette essere restaurato quasi dalle fondamenta: le spese furono sostenute da cittadini benefattori. Due iscrizioni tramandano quanto detto: La prima è sistemata sul portale, la seconda è posta sul pavimento. Al suo interno, la chiesa conservava una tela raffigurante la Madonna incoronata da un Angelo, opera attribuita al pittore Giuseppe Oliviero datata 1726.
Pochi anni fa, sempre in via S. Gennaro, furono rinvenuti i ruderi di una domus che, a suo tempo, presentava, lungo la strada, alcuni ambienti adibiti a “taberna” con “tormopolio”. Praticamente era una locanda, che essendo ubicata a poca distanza dalla porta Albana, offriva sosta e ristoro a coloro che transitavano lungo l’Appia per entrare o uscire dalla città.
Nei locali a piano terra di un fabbricato sito lungo la nuova strada, venne installato il telegrafo a due aghi ideato da William Thomas Henley, in uso nel regno di Napoli fin dal 1840. L’apparecchiatura esistente a S. Maria fu danneggiata dai rivoltosi sammaritana nella giornata del 15 maggio 1848.
Negli stessi locali, verso il 1859, venne messo in funzione il “telegrafo elettrico tipo Morse”, il primo della Provincia di Terra di Lavoro. Con Esso, la sera del I ottobre 1869 il generale garibaldino Sirtori telegrafò al generale Cosenz che si trovava a Napoli: “Abbiamo vinto su tutta la linea … S. Maria ore 10,45 pm”.
(Nota: Il primo telegrafo elettrico del tipo Morse che funzionò in Italia, fu installato a Napoli e inaugurato il 31 luglio 1852; collegava Napoli, Caserta, Capua e Gaeta).
(Autore:Salvatore Fratta)