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Santi del 27 Marzo

Il mio Santo > I Santi di Marzo

*Sant'Aimone di Halberstadt – Vescovo, Benedettino (27 Marzo)

m. 27 marzo 853
Etimologia:
Aimone = difensore della casa, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Entrò giovanissimo nel monastero benedettino di Fulda; fu compagno di Rabano Mauro, con il quale ascoltò le  lezioni di Alcuino (802) nel celebre monastero di San Martino di Tours.
Ritornò a Fulda (804), dove risiedette e insegnò fino all'839 ca., quando fu trasferito ad Hersfeld.
Nell'840 ad opera dell'imperatore Ludovico il Germanico fu nominato vescovo di Halberstadt e come tale partecipò ai sinodi di Magonza degli anni 847 e 852.
Rabano Mauro gli dedicò l'opera De universo; anche Aimone scrisse parecchio, ma non tutte le opere a lui attribuite e raccolte in tre volumi nel Migne sono autentiche.
Aimone morì il 27 marzo 853.
Nei martirologi benedettini è talvolta chiamato «Beato» o «Santo», ma non consta che abbia mai avuto un culto ufficiale e riconosciuto dalla Chiesa.

(Autore: Alfonso M. Zimmermann - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Aimone di Halberstadt, pregate per noi.

*Sant'Alessandro di Drizipara – Martire (27 Marzo)

Etimologia: Alessandro = protettore di uomini, dal greco
Emblema: Palma
Secondo la sua passio, ricca di elementi leggendari e fantastici, Alessandro, legionario romano, militava agli ordini del tribuno Tiberiano, sotto l'imperatore Massimiano (286-305), allorché si rifiutò di sacriIicare a Giove, essendo cristiano, in occasione dell'inaugurazione in Roma di un tempio al padre degli dei.
Arrestato e condotto davanti all'imperatore, professò apertamente la sua fede, per cui venne crudelmente torturato, consegnato quindi a Tiberiano ed infine inviato in Tracia, dove subì nuove più atroci torture, sopportate peraltro tutte con grande coraggio.  
Trasferito da una località all'altra dell'Illiria e della Tracia, fu sottoposto dovunque ad ulteriori più estenuanti interrogatori ed a spietati supplizi, finché a Drizipara (non molto lungi dall'attuale Karistiran) Tiberiano lo fece mettere a morte mediante decapitazione, che venne eseguita in un luogo distante 18 miglia dalla città.
Il corpo di Alessandro fu gettato quindi in un fiume, donde venne ripescato, con l'aiuto di quattro cani, dalla madre stessa del martire, Pemenia, che, miracolosamente avvisata da un angelo, aveva potuto seguire il figlio per tutto il suo doloroso itinerario.
Il culto di Alessandro di Drizipara sembra risalire al sec. VI; intorno a quell'epoca, infatti, la pietà  popolare aveva voluto innalzare, sul luogo dove la madre del martire aveva dato sepoltura al figlio morto per la fede, una magnifica chiesa in suo onore, che fu saccheggiata e distrutta all'inizio del 600 dagli Avari, i quali inoltre, secondo una testimonianza del cronista bizantino Teofilatto Simocatta, profanarono le reliquie del Santo, subendo però l'immediato castigo divino: una peste che decimò le loro forze.
La commemorazione di Alessandro è fatta dal Martirologio Romano il 27 marzo, mentre nel Sinassario Costantinopolitano due volte ricorre il nome di un Alessandro martire, al 25 febbraio ed al 13 maggio, con notizie alquanto discordanti tra loro, il che farebbe pensare trattarsi di due differenti persone, mentre è quasi certo che si riferiscono entrambe allo stesso individuo.

(Autore: Agostino Amore - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Alessandro di Drizipara, pregate per noi.

*Sant'Augusta di Serravalle - Vergine e Martire (27 Marzo)

Serravalle (Vittorio Veneto), † 100 ca.
Gli «Atti» di sant'Augusta furono redatti alla fine del XVI secolo da Minuccio de' Minucci di Serravalle, segretario di papa Clemente VIII. Le notizie sono leggendarie, come del resto accadde per molti martiri dei primi tempi del cristianesimo. Augusta sarebbe stata figlia di Matruco, capo alemanno (dell'Alemagna, la Germania), che aveva conquistato e sottomesso il Friuli. Questi risiedeva a Serravalle (attuale borgo antico della città di Vittorio Veneto) ed era un accanito nemico della religione cristiana.
Augusta abbracciò la nuova fede segretamente, ma il padre ne venne comunque a conoscenza e la fece arrestare. Giacché si rifiutò di apostatare, intorno all'anno 100 fu gettata in un carcere e dopo varie torture, venne decapitata.  (Avvenire)
Gli “Atti” di S. Augusta, cioè le notizie sulla sua vita e martirio, furono redatte alla fine del XVI secolo da Minuccio de’ Minucci di Serravalle, protonotario apostolico e segretario di Papa
Clemente VIII (1592-1605).
Questi “Atti” furono inviati agli editori dei volumi “De probatis sanctorum historiis” di Lorenzo Surio, certosino e agiografo tedesco (1522-1578) e furono inseriti nel vol. VII dell’edizione stampata a Colonia in Germania.
Le notizie sono senz’altro leggendarie, come del resto accadde per molti martiri dei primi tempi del cristianesimo, oppure di martiri che molto tempo dopo la loro morte, si siano trovate le reliquie e quindi ci si è spesso inventati la vita.
Secondo questi “Atti”, Augusta era figlia di Matruco, capo alemanno (Alemagna - Germania), che aveva conquistato e sottomesso il Friuli; questi risiedeva a Serravalle (attuale borgo antico della città di Vittorio Veneto) ed era un accanito nemico della religione cristiana.
Augusta abbracciò la nuova fede segretamente, ma il padre ne venne comunque a conoscenza e la fece arrestare. Giacché si rifiutò di apostatare, fu gettata in un carcere e dopo varie torture, venne decapitata; il suo corpo fu ritrovato alcuni anni dopo sepolto su una collina, sovrastante Serravalle, che prese il suo nome; qui le fu dedicata dal V secolo, una chiesa molto frequentata dagli abitanti.  
L’epoca del suo martirio è circa il 100 d.C.; la Santa è anche conosciuta come Augusta di Ceneda, (secondo nucleo di Vittorio Veneto, città posta ai piedi delle Prealpi Bellunesi, in provincia di Treviso).  
Sant'Augusta viene raffigurata con i simboli del suo martirio, una ruota dentata per la tortura, i denti che le furono strappati, la palma.
Sulla collina di Sant'Augusta, vi sono ancora i resti del castello del truce padre Matruco, e la grande chiesa a lei dedicata.
Il nome Augusto/a significa “consacrato”; esso fu premesso a parecchie città per onorare l’imperatore romano Augusto, come: Augusta Praetoria (Aosta), Augusta Taurinorum (Torino); Augusta Treverorum (Treviri), ecc. inoltre si chiamano così Augusta in provincia di Siracusa, la capitale del Maine negli U.S.A., Augusta in Georgia, Augsburg, importante città tedesca.  

(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Augusta di Serravalle, pregate per noi.

*Beato Claudio Gallo - Patriarca d’Antiochia (27 Marzo)
+ 1304  
Patriarca d’Antiochia, il Beato Claudio Gallo, fu strenuo difensore della libertà dell’unità ecclesiastica, dottissimo nelle Sacre Scritture il quale con e virtù e miracoli rese famosa la Chiesa e l’Ordine Mercedario.
Di una devozione ammirabile verso la Madre di Dio, la quale lo colmò di celesti favori.
Morì nel 1304.
L’Ordine lo festeggia il 27 marzo.  

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Claudio Gallo, pregate per noi.

*Santi Fileto e Lidia, sposi, e Macedone, Teoprepio, Cronide e Anfilochio – Martiri  (27 Marzo)
+ Illiria, II secolo
La “passio” di questi Santi è giudicata dai Bollandisti nel loro Commento al Martirologio Romano “certe fabulosa”, cioè sicuramente favolosa.
Fileto sarebbe stato un nobile senatore illirico, Lidia la sua sposa, Macedone e Teoprepio i loro figli.
Arrestati semplicemente in quanto cristiani, l’imperatore Adrianò li affidò all’alto ufficiale Anfilochio affinché li sottoponesse ad atroci torture.
Dinnanzi alla fortezza con cui l’intera famiglia sopportò diversi supplizi, Anfilochio dovette desistere ed addirittura si convertì al cristianesimo.
Allo stesso modo anche l’ufficiale di guardia della prigione, Cronide, seguì il suo esempio.
L’imperatore si adirò molto al giungere della notizia alle sue orecchie e li fece sottoporre tutti e sei a nuovi supplizi nella speranza di farli desistere.
Morirono infine immersi in una vasca ricolma di olio bollente.
I sinasari bizantini ricordano questi gloriosi martiri al 27, 28 o 29 marzo, mentre il Martyrologium Romanum non li cita più nell'ultima edizione.
Fileto e Lidia, i cui nomi non sono purtroppo molto conosciuti, non sono che una della moltissime coppie di sposi venerati come santi nella storia della cristianità, addirittura un’intera famiglia martirizzata in odio alla sua fede in Cristo, come nel XX secolo in Polonia la famiglia Ulma, per la quale è in corso il processo di canonizzazione: validi modelli dunque in un’epoca in cui il valore della famiglia è messo a repentaglio da iniziative discutibili dal punto di vista cristiano.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Fileto e Lidia, Macedone, Teoprepio, Cronide e Anfilochio, pregate per noi.

*Beato Francesco Faà di Bruno – Sacerdote (27 Marzo)
Alessandria, 29 marzo 1825 - Torino, 27 marzo 1888
Francesco Faà di Bruno fa parte della grande schiera dei Santi sociali piemontesi. Nacque ad Alessandria nel 1825 da una famiglia della nobiltà militare.
Prima di divenire prete, lui stesso fu ufficiale dell'esercito sabaudo (è protettore dei genieri), professore all'Università di Torino, architetto e matematico, consigliere della Casa reale.
Diede vita all'opera Santa Zita per le donne di servizio e a una casa per ragazze madri.  
Fondò le suore Minime di Nostra Signora del Suffragio. Morì nel 1888 ed è beato dal 1988.  (Avvenire)

Martirologio Romano: A Torino, Beato Francesco Faá di Bruno, sacerdote, che unì sempre alla sua competenza di matematico e fisico l’impegno nelle opere di carità.  
Francesco Faà di Bruno, ultimo di dodici figli, nacque ad Alessandria il 29 marzo 1825. I genitori, entrambi nobili  e benestanti, lo educarono cristianamente, come gli altri numerosi fratelli.
Nel tranquillo castello di Bruno (AL) la famiglia trascorreva ogni anno lunghi periodi.
Esemplare nella carità era la madre, attenta nel soccorrere i poveri del paese. Due fratelli si fecero religiosi (uno entrò nella congregazione fondata a Roma da S. Vincenzo Pallotti, a Londra diede vita ad un’opera per gli immigrati italiani e fu successore del Santo alla guida della congregazione) e due sorelle entrarono in monastero.
La madre purtroppo morì quando Francesco aveva solo nove anni.
Dopo aver frequentato il collegio dei Padri Somaschi a Novi Ligure, avrebbe desiderato seguire l’esempio dei fratelli religiosi ma, consigliato da una zia, entrò a quindici anni nell’Accademia militare di Torino, emulando così il fratello Emilio (che morirà da eroe nel 1866 durante la battaglia di Lissa, meritando la Medaglia d’oro al valor militare).  
Nel 1846 Francesco fu nominato luogotenente.  
Era solo ventitreenne quando partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza, aiutante di campo del principe  ereditario Vittorio Emanuele.
Nella sanguinosa battaglia di Novara, vide morire in battaglia molti soldati.
Quelle vite stroncate all’improvviso, il pensiero che la maggior parte di quei giovani non fosse preparata all’inaspettato incontro con Dio, furono un monito che tenne poi sempre fisso nella memoria. Durante gli scontri il suo cavallo fu colpito a morte e lui, che era molto alto, anche se ferito ad una gamba, restò in piedi e si mise in salvo.
Nei mesi precedenti, sorpreso che non esistessero rilievi aggiornati della zona, aveva raccolto i dati necessari per disegnare la “Gran carta del Mincio”, il cui utilizzo sarà decisivo nel 1859
durante le battaglie di Solferino e San Martino.
Il giovane ufficiale aveva già quel profondo senso del dovere e di pietà che lo contraddistinse e lo guidò, per tutto il resto della vita.
Fu decorato e promosso capitano di Stato Maggiore ma, trovandolo eccessivo, scrisse al fratello Alessandro:  “Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere”.
Nella Torino “dei santi”, i passi del giovane ufficiale incontrarono quelli di don Bosco. Molte volte, deposta la sciabola in sacrestia, servì Messa, in divisa, al “santo dei ragazzi”, prima di recarsi all’Accademia militare.
Le doti e l’ottimo carattere convinsero Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, a nominarlo precettore dei figli.
Per perfezionare gli studi si trasferì a Parigi e alla Sorbona conseguì la licenza in Scienze matematiche.
Ritornato a Torino, nel 1851, trovò che l’incarico gli era stato revocato.Era un cattolico “fervente” ed impegnato e ciò infastidiva la corrente anticlericale cui il sovrano doveva  sottostare per ragioni d’equilibrio politico.
Addirittura per la sua preparazione fu sfidato a duello da un commilitone, ma Francesco per coscienza si sottrasse. Deluso per le opposizioni dei potenti, memore delle scene terribili vissute sui campi di battaglia, si dimise dall’esercito.
Nel 1853 pubblicò il “Manuale del soldato cristiano” e, partendo nuovamente per Parigi, passò all’amico don Bosco la cura de “Il Galantuomo”, un calendario che pubblicava per i contadini con consigli e massime religiose.
Aveva anche fatto stampare “La lira cattolica”, una raccolta di canti sacri da lui composti. Nella capitale francese frequentò la Sorbona, laureandosi in Scienze matematiche ed in Astronomia.
Qui ebbe come docente e poi relatore di Tesi Agostino Cauchy, illustre esponente del mondo cattolico parigino.
La formazione di quegli anni sarà fondamentale per il suo futuro impegno a servizio della Chiesa. Conobbel’eccezionale realtà delle Conferenze di San Vincenzo ed il loro fondatore Federico Ozanam. Si aggregò alla sua conferenza (St. Germain des Prés) ed ebbe modo di conoscere numerose iniziative che i cattolici francesi conducevano in favore dei poveri.
Tornato a Torino, nella sua parrocchia di San Massimo, aprì una scuola di canto per le tante serve che la domenica vagavano per la città, abbandonate a loro stesse.
Compose canti religiosi che egli stesso accompagnava poi all’organo e che faceva eseguire nelle varie parrocchie  dove andava ad animare la Messa domenicale. Conobbe così i problemi di questa categoria del tutto ignorata.
Nel 1857 Francesco pubblicò la “formula di Bruno”, ancora oggi impiegata nei calcoli informatici, e iniziò a impartire lezioni universitarie, libere e non retribuite, di analisi e astronomia fisica.
Nasceva intanto la prima conferenza vincenziana torinese dei Ss. Martiri.
Vi presenziò, fu poi a capo di quella di San Massimo e ne fondò una ad Alessandria, sua città natale, tra non poche difficoltà. Si candidò alle elezioni politiche per contrastare la corrente liberale imperante, ma non vinse, sembra per brogli elettorali.
In quegli anni invitò le autorità cittadine ad istituire i fornelli economici, sul modello francese, per offrire un pasto caldo a chi non aveva molte disponibilità economiche.
Chiese un sussidio, ma non ottenne risposta. Realizzò egli stesso il progetto in borgo San Donato, uno dei più malfamati della città, dove nel 1858 acquistò un terreno e una casa, dando vita a quello che sarà il suo capolavoro.
Aprì ufficialmente il 2 febbraio 1859 la Pia Opera di Santa Zita e la pose sotto la protezione della Santa lucchese. Raggiunse la somma necessaria, esauriti i mezzi propri, chiedendo aiuto alla famiglia e questuando fuori dalle chiese. Vi accoglieva gratuitamente le donne in cerca di servizio, curando la loro formazione, preoccupandosi di assicurarle in famiglie dai sani principi in cui dovevano essere “strumento di pace e di concordia”. Quelle invece intellettivamente non molto dotate, che in famiglia davano preoccupazioni, formeranno le “clarine” (sotto la protezione di Santa Chiara).
Accolte ed aiutate, erano in grado di compiere servizi altrettanto utili, ad esempio nella lavanderia, dove funzionavano macchine a vapore da lui stesso progettate.
Lavando per l’Accademia militare, per le ferrovie, e per qualche privato, il Beato ebbe delle entrate per sostenere  l’Opera. Nel 1861 venne nominato dottore aggregato alla Facoltà di Scienze fisiche e matematiche, tre anni dopo  iniziò ad insegnare topografia, geodesia, trigonometria nella Scuola d’Applicazione dell’esercito.
Il “complesso di Santa Zita”, che in seguito mutò nome in Conservatorio del Suffragio, intanto si ingrandiva.
Francesco vi aggiunse un pensionato per sacerdoti, un pensionato per donne di “civil condizione”, senza dimenticare quelle più povere, posti sotto la protezione di S. Giuseppe; pensò alla formazione delle giovani come insegnanti e aprì la classe delle Allieve maestre (protettrice S. Teresa d’Avila), la classe delle Educande per preparare le giovani a gestire una famiglia.
Istituì pure un liceo, cui don Bosco mandò i primi ragazzi, raccomandandogli di “ritornarglieli promossi”,  una biblioteca mutua circolante, una tipografia, anch’essa gestita da donne, cosa a quei tempi scandalosa, in cui il beato stampò alcune sue pubblicazioni scientifiche e musicali.
Era ormai la ”cittadella della solidarietà femminile”. Il suo cuore batteva per i più deboli, per ogni vita in pericolo che poteva soccorrere e salvare nella sua dignità. Una realtà femminile del tutto dimenticata era quella delle ragazze madri, che la società considerava delle depravate, mentre il più delle volte erano vittime di padroni senza scrupoli.
Faà di Bruno aprì per loro una “casa di preservazione” in Via della Consolata: la cosa era talmente straordinaria, che nel Conservatorio del Suffragio nemmeno si sapeva dell’esistenza di quest’opera.
Un laico aveva dato vita ad un complesso eccezionale di opere, dirette la maestre laiche che si riunivano a pregare nella cappella di S. Zita, ormai troppo piccola. La necessità di un luogo sacro più ampio convinse il Faà di Bruno, nel 1864, a dare mano alla costruzione di una chiesa dedicata a Nostra Signora del Suffragio. Com’ebbe a scrivere ai suoi commilitoni, lo volle come monumento ai Caduti di tutte le guerre, luogo di preghiera per le anime dei defunti. Fu costretto a sospendere i lavori per mancanza di fondi ma, pur di realizzarlo, andò questuando anche alle porte delle chiese cittadine.
Allo scultore Antonio Tortone commissionò un monumentale gruppo marmoreo raffigurante la Vergine Santa aiuto delle anime del purgatorio. La Chiesa fu benedetta il 31 ottobre 1876 dall’Arcivescovo Gastaldi, che pure aveva ostacolato la sua ordinazione sacerdotale.
Quando infatti Francesco decise, a cinquantuno anni, di consacrarsi prete, realizzando quella vocazione che per  tanti anni aveva conservato in cuore e che certamente l’aveva mosso ad agire come fosse un sacerdote, dovette farlo a Roma. Don Bosco lo sostenne ed espose la situazione al Papa Pio IX che con dispensa speciale permise la sua ordinazione il 22 ottobre 1876.
Dopo tre mesi di preparazione, con il calice che lo stesso pontefice gli aveva donato, celebrò la sua prima Messa.
Nella sua Torino coronò solennemente il suo sogno il 1° novembre, all’inizio del mese dedicato ai defunti. La celebrazione del sacrificio eucaristico, il massimo mezzo di suffragio, ebbe per lui un significato straordinario. Lo fece sempre con grandissimo scrupolo, tornando spesso col pensiero a quei giovani che aveva visto morire sui campi di battaglia.
Alla chiesa affiancò un campanile alto settantacinque metri, che progettò personalmente applicando le leggi di statica e fisica che ben conosceva.
Vi collocò un orologio su ognuno dei quattro lati, che segnava ogni quarto d’ora e in un quartiere povero, come era San Donato, ciò aveva una valenza sociale.
Era una  presenza religiosa tra le case che armonizzava scienza e fede. Nell’ardita costruzione, che ospita otto campane, una ottenuta dalla fusione di un cannone fattosi donare dal Re, inserì un osservatorio astronomico e meteorologico. Sulla sua sommità collocò la vigilante statua dell’arcangelo Michele. L’attività di Francesco non conosceva soste. Iniziò con don Bosco l’opera per la santificazione delle feste, contro lo sfruttamento domenicale dei lavoratori, e inviò al Comune uno studio per realizzare dei bagni pubblici e dei lavatoi per prevenire la diffusione delle malattie causate della poca igiene. Pensava alle donne che lavavano i panni sulle rive dei fossi e che d’inverno dovevano prima rompere il ghiaccio.
Francesco fu anche uno scienziato, inventò un barometro differenziale a mercurio, uno scrittoio per ciechi  (stimolato dalla cecità della sorella), che fu premiato in alcune esposizioni universali, uno svegliarino elettrico e uno ellipsigrafo.
Nel 1867 pubblicò un saggio scientifico sulla teoria delle forme binarie.
Vedeva l’armonia delle leggi della fisica e della matematica come “un’ombra delle perfezioni di Dio”. Diceva che “il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose  regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”.
Il suo nome cominciò a circolare in tutta Europa, ma l’Università torinese non lo nominò mai ordinario di una cattedra. Non ebbe che supplenze e incarichi temporanei.
Visse non senza contraddizioni il periodo risorgimentale, considerandolo necessario, era però angustiato dagli attacchi alla Chiesa. Era un uomo di preghiera, “un asceta cittadino”, tra i primi ad introdurre le adorazioni notturne in città.
Nel 1880 fondò l’Istituto di San Giuseppe a Benevello d’Alba, per la formazione professionale delle giovani. L’anno dopo ottenne l’approvazione diocesana della congregazione religiosa che aveva avuto origine dal gruppo di giovani donne che dal 1868 portava avanti le sue opere.
Oltre ai voti di povertà, castità e obbedienza, consacravano i propri beni spirituali per le anime del purgatorio e ciò avveniva per l’Atto eroico di carità: nasceva così la Congregazione alle Suore Minime di N. S. del Suffragio.
Le chiamò Minime in omaggio del suo Patrono San Francesco di Paola. Giovanna Gonella, prima segretaria dell’Opera e poi direttrice, divenne suora soltanto dopo la morte del fondatore e sarà poi la prima Superiora generale. Al Beato si devono anche due opere teologiche, una sull’Eucaristia (1872) e un Catechismo ragionato (1875), pur continuando gli studi scientifici. Suoi articoli erano pubblicati su autorevoli riviste internazionali, poiché conosceva l’inglese, il tedesco, il francese. Le sue “invenzioni” ottennero numerosi premi. Diceva: “l’istruirmi e l’essere utile agli altri, sono i cardini della porta della mia felicità”.
Tradusse dall’inglese e dal tedesco alcune opere di devozione, organizzava “serate scientifiche” per finanziare la realizzazione degli affreschi della “sua” chiesa. Ricco e nobile, Francesco visse da povero, per aiutare i poveri. Promosse la figura femminile sotto ogni aspetto, dalle “serve” fino a fondare una congregazione di religiose mentre era ancora laico.
Il “Padre” chiuse gli occhi su questa terra, dopo appena cinque giorni di malattia, forse per un’infezione intestinale, il 27 marzo 1888, due mesi dopo l’amico don Bosco.
Erano le nove del mattino del martedì della Settimana Santa, in quella stanza in cui aveva voluto una finestrella dalla quale adorare Gesù Eucaristia, presente nel tabernacolo della chiesa.
Lo faceva spesso di notte, per recuperare il tempo della preghiera che per altri impegni forse aveva trascurato durante la giornata.
Fu magnanimo anche da morto e a quell’università che non lo aveva mai pienamente accolto, donò “la preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d’Italia, raccolta in trentotto anni di studio e di lavoro”.
Francesco Faà di Bruno fu beatificato il 25 settembre 1988, nel centenario della morte, da Giovanni Paolo II che, durante una sua   visita a Torino, gli dedicò la cappella della Scuola di Applicazione, indicando l’antico capitano come protettore dei militari.
Le sue reliquie sono venerate nella Chiesa di N.S. del Suffragio annessa alla Casa Madre dell’Istituto.  
Un museo raccoglie i suoi ricordi, libri antichi, molti strumenti scientifici e alcune sue invenzioni.
Le Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio sono oggi missionarie in diverse paesi del mondo, nello spirito che il Fondatore ha racchiuso nel suo motto: PREGARE, AGIRE, SOFFRIRE.
Preghiera

O Padre, tu hai ispirato il beato Francesco Faà di Bruno
a porre la fede, la scienza e la carità
al servizio di Dio e dei fratelli vivi e defunti.  
Fa’ che, sul suo esempio,
siamo docili alle ispirazioni dello Spirito Santo
e amiamo tutti con il cuore di Cristo.
Concedici, per sua intercessione,
la grazia che ti domandiamo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

(Per informazioni: Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio Via San Donato, 31 - 10144 Torino - Autore: Daniele Bolognini)
Giaculatoria - Beato Francesco Faà di Bruno, pregate per noi.

*Beato Ludovico Edoardo Cestac - Sacerdote (27 Marzo)

Bayonne, Francia, 6 gennaio 1801 - Anglet, Francia, 27 marzo 1868

Fu considerato da chi lo conobbe un "nuovo curato d’Ars" e un fondatore di Opere straordinario. Nacque a Bayonne città dei Bassi Pirenei in Francia, il 6 gennaio 1801 da Domenico e Giovanna Amitessarobe, verso i tre anni fu colpito da una incurabile nevralgia e da un completo mutismo, la madre lo consacrò alla Madonna di San Bernardo.
Guarito, portò per tutta la vita una grande devozione alla Madonna; la sua famiglia nel 1813 si trasferì a Puntous negli Alti Pirenei, al tempo dell’invasione della Francia da parte di Spagna e Inghilterra.
A 17 anni entrò nel piccolo seminario di Aire dove si ritrovò con Michele Garicoïts, che aveva conosciuto a Bayonne, già filosofo e che diventerà poi santo nel 1947, essendo stato anch’egli un grande fondatore.
Trasferito a S. Sulpizio nel 1820, qui nel giorno di Natale del 1821, ricevé gli Ordini minori, l’anno successivo a seguito di una malattia rientrò a Bayonne, prese a frequentare il piccolo seminario di Larressorre dove ebbe il compito di economo e professore di matematica e musica, qui s’imbatté nel suo confessore, di idee gianseniste che a lungo gli negò l’assoluzione, creandogli disagi e sofferenza spirituale.
Il giansenismo, già condannato da papa Innocenzo X, seguiva il concetto che a motivo della profonda corruzione dell’uomo dopo il peccato originale, vi era assoluta necessità della Grazia per la salvezza, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni per imperscrutabile disegno di Dio.
Diventò sacerdote il 17 dicembre 1825, divenendo anche professore di filosofia; fu sospettato di essere seguace del noto sacerdote filosofo, politico, scrittore Félicité-Robert de Lamennais, coautore del tradizionalismo, che era fautore dell’idea di un cattolicesimo democratico per ravvicinare la Chiesa alla società moderna; filosofo condannato dalla Chiesa di allora nel 1832 e Ludovico Cestac dovette difendersi e affermare la sua fedeltà a Roma; nel 1831 il vescovo locale mons. d’Arbou, congedò i professori del seminario e lui divenne vicario della cattedrale fino al 1838.
In quegli anni e nei seguenti cominciò la fondazione di opere di notevole importanza: L’Associazione delle Figlie di Maria per le domestiche; l’Opera della Perseveranza per le signorine della buona società; i Circoli di studio per i giovani; l’Opera degli Orfanelli di Maria nel
1836 completamente gratuita che fu affidata l’anno successivo a sua sorella Elisa; nel 1838 fondò l’Opera dei Penitenti di Maria che sistemò in un possedimento acquistato a Chateauneuf nella città di Auglet per poter dare loro la possibilità di lavorare all’aperto, istituzione che prese nel 1839 il nome di "Notre-Dame du Refuge" certamente l’Opera più importante.
Nel 1842 fondò la Congregazione delle Religiose Serve di Maria con superiora la sorella Elisa che prese il nome di suor Maria Maddalena, compito che tenne per sette anni fino alla morte avvenuta il 17 marzo 1849.
Infine il 15 agosto 1846 fondò la Congregazione delle "Solitarie di San Bernardo" o "Silenziose di Maria" chiamate anche suore Bernardine, votate al silenzio perpetuo.
Inoltre fu nominato canonico della cattedrale di Bayonne, dalla quale dopo cinque anni nel 1855 si dimise per non trascurare le sue Opere.
La sua attività si estese anche all’organizzazione di scuole parrocchiali, con metodi pedagogici, compose un Sillabario e un Metodo per imparare l’ortografia, inviò nel 1854-56 a Madrid alcune suore per dirigere un ospedale e un pensionato per signorine.
Già nel 1860 si contavano 900 Serve di Maria, 160 Penitenti, circa 40 Solitarie, circa 60 Orfanelle. L’Imperatore di Francia Napoleone III, il 4 ottobre 1865 gli concesse la Légion d’honneur (Legion d’onore) massima onorificenza francese. Propagò la medaglia miracolosa della Vergine, celebrò con solennità il dogma dell’Immacolata Concezione, seguì con trepidazione le vicende che coinvolgevano il papa Pio IX.
Scrisse le Note intime con i particolari delle sue fondazioni e note biografiche. La sua santità fu l’adempimento dei suoi doveri e l’amore per il prossimo con immensa generosità.
Morì il 27 marzo 1868; la causa per la sua beatificazione fu introdotta il 7 aprile 1908 e i relativi processi apostolici furono portati a Roma il 15 marzo 1916. È stato infine solennemente beatificato il 31 maggio 2015 nella Cattedrale di Bayonne.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Ludovico Edoardo Cestac, pregate per noi.

*Beato Maria Eugenio di Gesù Bambino (Henri Grialou) - Sacerdote Carmelitano, Fondatore (27 Marzo)
Le Gua, Francia, 2 dicembre 1894 – Venasque, Francia, 27 marzo 1967

Padre Maria Eugenio di Gesù Bambino, al secolo Henri Grialou, aveva iniziato la sua formazione nel seminario diocesano di Rodez, ma entrò nell’Ordine dei Carmelitani Scalzi dopo l’ordinazione sacerdotale, perché si era appassionato alla dottrina di Santa Teresa di Gesù Bambino e di San Giovanni della Croce.
Rivestì vari incarichi di responsabilità nel suo Ordine, curando in particolare le comunità femminili in Francia. Dal 1955 poté dedicarsi quasi a tempo pieno all’opera cui aveva dato inizio
Rivestì vari incarichi di responsabilità nel suo Ordine, curando in particolare le comunità femminili in Francia. Dal 1955 poté dedicarsi quasi a tempo pieno all’opera cui aveva dato inizio quando, nel 1929, aveva iniziato a fare da direttore spirituale ad alcune giovani donne: l’Istituto Secolare Nostra Signora della Vita, che oggi comprende sacerdoti incardinati e consacrati laici, sia uomini sia donne. Morì il 27 marzo 1967 a Venasque, presso il santuario di Nostra Signora della Vita, dove sono custoditi i suoi resti mortali. È stato beatificato il 19 novembre 2016 ad Avignone.
Infanzia e vocazione
Henri Grialou nacque il 2 dicembre 1894 a Le Gua, frazione di Rodez, nel dipartimento dell’Aveyron; era il terzo dei cinque figli di Auguste, minatore di professione, e Marie. La famiglia si trasferì a Cransac, cittadina mineraria, per motivi di lavoro del padre, che però si ammalò di tubercolosi: a nemmeno dieci anni, Henri era già orfano di padre. Il fratello maggiore, Marius, divenne quindi l’uomo di casa.
Tutte le mattine, prima di andare a scuola dai Fratelli delle Scuole Cristiane, Henri passava per la chiesa del suo paese, spingendosi fin sul presbiterio. Fu in quel modo che, col tempo, comprese di essere chiamato al sacerdozio. Tuttavia, non voleva pesare sulla sua famiglia, che era diventata ancora più povera con la scomparsa del padre.

Allievo della Scuola apostolica dei Missionari dello Spirito Santo
Nel 1905 gli venne offerto di andare a studiare nella Scuola apostolica (una struttura per accogliere gratuitamente gli aspiranti al sacerdozio, non necessariamente nella congregazione che la gestisce) dei Missionari dello Spirito Santo a Susa, in Piemonte. Partì, completamente solo, nel mese di settembre.
Dopo due anni tornò in Francia, ma portò con sé la nostalgia delle Alpi e un accresciuto desiderio di diventare sacerdote. Messa di fronte alla determinazione del figlio, la vedova Grialou gli permise di entrare nel Seminario minore di Rodez, impegnandosi a fondo per pagargli la retta.

La scoperta di santa Teresa di Gesù Bambino
Durante quel periodo, Henri fece la scoperta spirituale che lo segnò per sempre: leggendo il libro «La rose effuillée» («La rosa sfogliata»), conobbe Teresa di Gesù Bambino, non ancora Beata né Santa. Nessun’opera, prima d’allora, lo aveva tanto colpito: in seguito, poté definire la giovane carmelitana di Lisieux «un’amica d’infanzia». Anche per via di quell’influsso, il giovane si domandò spesso se Dio non lo volesse missionario.
Tuttavia, la prima guerra mondiale era alle porte. Nel 1913 si arruolò volontario nell’esercito francese e prese parte nelle principali campagne belliche. Sei anni dopo tornò in Seminario: aveva ottenuto il grado di luogotenente e aveva ricevuto le decorazioni della croce di guerra e la Legion d’onore. Soprattutto, era orientato più che mai al sacerdozio.

La chiamata al Carmelo
Ormai nel Seminario maggiore, si stava preparando a ricevere gli Ordini sacri. La sera del 13 dicembre 1920, durante il ritiro in preparazione al diaconato, Henri stava leggendo un compendio della vita di san Giovanni della Croce. All’improvviso, comprese che Dio volesse che lui entrasse al Carmelo.
La sua prima reazione fu di credere di stare impazzendo, come gli confermò il direttore spirituale. Il suo vescovo voleva che si mettesse a disposizione delle missioni diocesane, mentre sua madre gli rispose che poteva partire, ma che piuttosto si sarebbe uccisa. Per giunta, lui non aveva la minima idea di dove trovare un convento carmelitano in Francia: in effetti, i padri erano rientrati da poco dall’esilio in Belgio e si erano stabiliti, il 24 agosto 1920, ad Avon, presso Fontainebleau.

Novizio carmelitano
Attese l’ordinazione sacerdotale per mettere in atto la sua decisione. Il 4 febbraio 1922 divenne quindi sacerdote e venti giorni dopo, senza dire nulla a nessuno, entrò nel Carmelo di Avon. Il 10 marzo 1923, con la vestizione religiosa, prese il nome di padre Maria Eugenio di Gesù Bambino.
Nel corso del noviziato, approfondì la spiritualità dei santi carmelitani, specie di santa Teresa di Gesù. In particolare, comprese l’importanza dell’orazione mentale come centro delle varie occupazioni della vita.

Primi tempi dell’apostolato
Poco più di un mese dopo la vestizione, l’Ordine Carmelitano era in festa per la beatificazione di Teresa di Lisieux, canonizzata il 17 maggio 1925. L’anno seguente, il 24 agosto 1926, san Giovanni della Croce venne proclamato Dottore della Chiesa. Padre Maria Eugenio, che ormai era sulla trentina, fu incaricato di predicare tridui in onore dei due Santi in tutta la Francia.
Destinato al convento carmelitano di Lilla dall’11 agosto 1924, divenne anche, nel gennaio 1925, direttore della rivista «Le Carmel», che sotto la sua direzione accrebbe il numero degli abbonati: da 300 a 2000 in poco meno di due anni.

Una nuova e importante intuizione
La sua attività di predicatore gli fece percepire che specialmente i laici avessero bisogno di un approfondimento spirituale maggiore, quello stesso che lui aveva trovato al Carmelo. Riconobbe dunque di essere chiamato a mostrare alle anime la via dell’unione tra contemplazione e azione, tramite la preghiera e la vita nello Spirito.
Intanto, però, venne trasferito al convento del «Petit Castelet» a Tarascona come priore, accettando di curare l’educazione di bambini che sembrassero avere germi di vocazione carmelitana solo perché presentiva che Dio aveva in serbo altro per lui.

L’incontro con Marie Pila e le sue compagne
In effetti il 19 maggio 1929, Domenica di Pentecoste, fu avvicinato da tre giovani insegnanti, Marie Pila, Jeanne Grousset e Germaine Romieu, inviate a lui dalla priora del Carmelo di Beaune in Borgogna. Anche loro avevano un’ardente sete di verità e si erano accostate alla spiritualità carmelitana, ma si erano viste rispondere che la clausura non faceva per loro.
Padre Maria Eugenio chiese a Marie di prendersi un anno sabbatico dall’insegnamento – insieme alle colleghe aveva fondato una scuola privata a Marsiglia, il Cours Notre Dame de France – e di trascorrerlo presso l’antico santuario di Nostra Signora della Vita, nel dipartimento di Vaucluse; intanto, avrebbe impartito a lei e alle compagne delle lezioni sull’orazione mentale.
L’improvvisa nomina a priore del convento «L’ermitage» di Agen, che era pure sede di noviziato, lo costrinse ad accelerare la formazione del gruppetto: il 13 marzo 1932 accolse la loro professione nel Terz’Ordine Carmelitano e il giorno seguente le accompagnò a Nostra Signora della Vita.
Definitore generale
Fu poi priore a Montecarlo (1936). Le sue responsabilità nell’Ordine aumentarono quando, nel corso del Capitolo generale svolto a Venezia nel 1937, venne eletto terzo definitore generale e dovette quindi trasferirsi a Roma.
Vi risiedette stabilmente salvo negli anni dal 1940 al 1945, quando venne incaricato di viaggiare per i conventi femminili carmelitani di Francia per predicare ritiri, consigliare e confortare le comunità provate dalla seconda guerra mondiale.

Nasce l’Istituto Nostra Signora della Vita
Approfittò di quell’occasione per recarsi spesso a Nostra Signora della Vita, dove il 24 agosto 1937 era stata creata una Fraternità del Terz’Ordine Carmelitano, con Marie Pila come superiora. Il 15 agosto 1946 divenne una Pia Unione, col nome di Istituto Nostra Signora della Vita e senza cambiare la superiora.
Il 26 aprile 1947 padre Maria Eugenio venne eletto primo definitore generale e, nel settembre successivo, nominato visitatore apostolico per le Carmelitane scalze francesi. L’11 luglio
successivo ricevette alcuni giovani di Bordeaux, che stavano cercando un contesto in cui esprimere le loro aspirazioni spirituali: sarebbero diventati il ramo maschile.
Nel 1948, l’anno seguente alla promulgazione della Costituzione apostolica «Provida Mater Ecclesiae» sugli Istituti secolari, anche quello di Nostra Signora della Vita rientrò in quella categoria, diventando Istituto secolare di diritto diocesano.

Visite ai conventi in Francia e in Oriente
Il 3 gennaio 1953 accettò di occuparsi, come inviato della Sacra Congregazione dei Religiosi, di organizzare i conventi femminili in federazioni: in tutto visitò 142 conventi nella sola Francia. Visitò anche le comunità in Oriente, sia maschili sia femminili, raccomandando il primato della vita contemplativa secondo gli insegnamenti di Santa Teresa d’Avila.
Il suo capolavoro: «Voglio vedere Dio»
Nel mezzo della sua incredibile attività ebbe il tempo di pubblicare il suo capolavoro, «Voglio vedere Dio». Uscito inizialmente in due tomi, «Voglio vedere Dio» del 1959 e «Sono figlia della Chiesa» del 1961 (l’ultima traduzione italiana, in un volume unico, è del 2010), raccoglie le conferenze impartite ai primi membri dell’Istituto, ampliate e accresciute.
In sintesi, mostra che l’incontro con Dio può avvenire, nella fede, sin da quando si è sulla terra; il tutto attraverso i principali maestri del Carmelo, cui è associata santa Teresa di Gesù Bambino. L’opera è destinata a ogni tipo di persone, perché, come aveva commentato il suo autore: «Le persone che cercano Dio sono ovunque. Ah, se potessi raggiungerle tutte e parlare loro dell’Amore infinito!».

Vicario Generale dei Carmelitani e consolidamento dell’Istituto
Una nuova pagina del suo cammino si aprì alla morte del Superiore generale dei Carmelitani, avvenuta durante un viaggio in Messico: padre Maria Eugenio divenne Vicario generale per diciotto mesi, fino al successivo Capitolo del 1955.
Una volta rientrato in Francia e divenuto Provinciale della Provincia di Avignone-Aquitania, poté dedicarsi pienamente al consolidamento dell’Istituto, che il 23 ottobre 1954 aveva visto la creazione della Pia Unione dei Figli di Nostra Signora della Vita a Bordeaux, poi trasferita, nel 1970, nella diocesi di Avignone.
Il 22 aprile 1960 fu riconosciuto dall’arcivescovo di Avignone un gruppo di sacerdoti, diventati il 20 maggio 1961 la Pia Unione dei Sacerdoti di Nostra Signora della Vita, i cui membri emisero i primi voti il 29 dicembre 1964. Quanto ai membri laici uomini, professarono il loro impegno definitivo nel 1966. L’Istituto, intanto, aveva ricevuto l’approvazione pontificia il 24 agosto 1962.

Gli ultimi anni e la morte
Padre Maria Eugenio, che era stato rieletto per altre due volte come Provinciale, sentiva che la sua salute non era più come una volta: «Non sono più fatto di ferro», disse quasi scherzando, «ma di alluminio».
Una seria polmonite, che lo colpì il 18 febbraio 1965, lo spinse a lasciare le sue ultime consegne: «Questo è il testamento che vi lascio, chiedendo la grazia che Dio, che lo Spirito Santo scenda su di voi, cosicché tutti voi possiate dire il prima possibile che lo Spirito Santo è vostro amico, che lo Spirito Santo è vostra luce, che lo Spirito Santo è vostro Maestro».
La sua vita ebbe termine il 27 marzo 1967, a Venasque, presso il santuario di Nostra Signora della Vita. Era il Lunedì di Pasqua, giorno in cui, dieci anni prima, aveva scelto come data in cui ricordare proprio Nostra Signora della Vita.

La causa di beatificazione
La prima fase della causa di beatificazione di padre Maria Eugenio si è svolta nella diocesi di Avignone dal 7 aprile 1985 al 5 marzo 1994, ma ha ottenuto il nulla osta dalla Santa Sede il 27 settembre 1985. L’inchiesta diocesana, completata da un breve processo rogatorio (3-5 aprile 1990, a Tokyo), è stata convalidata il 24 marzo 1999. La "Positio super virtutibus" è stata trasmessa a Roma nel 2000.
Dieci anni dopo, il 14 luglio 1990, i Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi hanno dato parere positivo circa l’esercizio in grado eroico delle virtù cristiane da parte dell’allora Servo di Dio; opinione confermata dalla riunione dei cardinali e vescovi membri della stessa Congregazione l’11 ottobre 2011. Il 19 dicembre 2011 papa Benedetto XVI ha autorizzato la promulgazione del decreto che dichiarava Venerabile padre Maria Eugenio.

Il miracolo e la beatificazione
Risale agli anni ’80 del secolo scorso il miracolo che lo ha portato alla beatificazione. Un neonato, venuto alla luce con delle grosse cisti, aveva subito due operazioni, una a undici giorni dalla nascita, l’altra tre giorni dopo la prima. Alcuni giorni più tardi, il chirurgo notò una perdita da una piaga del dotto toracico, mentre il piccolo, di ventotto giorni, rischiava di morire.
Una prozia, al ricevere una lettera dai genitori che annunciava di prepararsi al peggio, chiese subito l’intercessione di padre Maria Eugenio: quello stesso giorno, senz’alcuna avvisaglia, il flusso si bloccò e il bambino cominciò a prendere peso, sotto lo stupore dei medici.
Il 28 maggio 2015 la Consulta medica della Congregazione delle Cause dei Santi affermò il carattere inspiegabile della guarigione, su cui si pronunciarono, attribuendo l’intercessione al sacerdote carmelitano, i consultori teologi il 1° dicembre 2015. Il 1° marzo 2016 i Cardinali e Vescovi hanno confermato quest’opinione. Due giorni più tardi, il 3 marzo 2016, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui il fatto era da ritenersi miracoloso.
Il rito di beatificazione si è svolto il 19 novembre 2016 al Parc des Expositions di Avignone, presieduto dal cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, come delegato del Santo Padre. Non è stata la prima volta per un evento del gene
re, anche se i precedenti sono molto più antichi: Tommaso d’Aquino, nel 1322, e Ivo di Tréguier, nel 1347, sono infatti stati canonizzati nel palazzo dei Papi.
L’Istituto Nostra Signora della Vita oggi
L’Istituto Nostra Signora della Vita, di diritto pontificio dal 21 novembre 1973, è oggi composto da tre rami autonomi: sacerdoti, laici e laiche; in tutto conta circa 600 membri, sparsi in tutto il mondo. Ad essi si unisce un centinaio di coppie, secondo i desideri del Beato fondatore, che desiderava pure un’organizzazione perché i coniugati potessero partecipare, nell’ambiente familiare, alla vocazione dell’Istituto.
Alcuni dei sacerdoti incardinati in esso si occupano dello Studium di Nostra Signora della Vita, una struttura internazionale di formazione teologica ufficialmente riconosciuta e annessa all’omonimo santuario di Venasque, dove riposano i resti del Beato Maria Eugenio e di Marie Pila, cofondatrice del ramo femminile.

(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*San Matteo di Beauvais - Crociato, Martire (27 Marzo)

+ 27 marzo 1098
Il giovane Matteo, originario di Beauvais in Francia, partì per la prima crociata insieme al suo vescovo, Ruggero, che lo aveva investito cavaliere.
Intorno al 1098 fu fatto prigioniero dai Mori e, rifiutatosi di rinnegare la fede cristiana, fu condannato alla decapitazione.
Matteo chiese ed ottenne di rinviare l’esecuzione sino al Venerdì Santo.
Il suo culto è prettamente locale e non ha mai ricevuto ufficiale conferma di culto da parte di alcun pontefice.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*Beata Panacea De' Muzzi - Vergine e Martire (27 Marzo)

Quarona, Vercelli, 1368 - 1383
Etimologia:
Palma
Martirologio Romano: A Quarona presso Novara, Beata Panacea de’ Muzzi, vergine e martire, che, all’età di quindici anni, mentre pregava in chiesa, fu uccisa dalla sua matrigna, dalla quale aveva sempre subito vessazioni.  
La fonte più antica che possediamo riguardo la vita di Panacea è di carattere iconografico ed è costituita da tre affreschi che si trovano nell'antico oratorio di San Pantaleone situato in località Oro di Boccioleto, comune della Valsermenza, una delle numerose valli laterali della Valsesia. I dipinti furono eseguiti nel 1476 da Luca De Campis e ci presentano dei momenti significativi della vita della ragazza: la carità verso i poveri, il suo martirio e il trasporto del suo corpo (funerale o inventio delle reliquie?) alla presenza del vescovo del clero e dei fedeli. Questi episodi sono una sintesi della storia molto triste, che ha tutto il sapore di una di quelle favole che raccontavano le nostre nonne, ma che, al contrario di queste, è ben documentata da molte fonti storiche, che rivelano la profonda fede di cui è intessuta: una fede vissuta e testimoniata fino al sacrificio estremo della vita.
Panacea nacque a Quarona, oggi dinamica cittadina situata tra Borgosesia e Varallo, nel 1368, da Lorenzo Muzio, originario di Cadarafagno, e da Maria Gambino oriunda di Ghemme. La madre morì prematuramente ed il padre, per non far mancare un così importante riferimento alla bambina, si risposò con una certa Margherita di Locarno Sesia. Nella ricomposta famiglia non erano però molto felici e tra la matrigna, la sorellastra e Panacea iniziarono una serie di incomprensioni e divergenze che portarono le prime due a manifestare aperta ostilità nei riguardi della fanciulla, fatta oggetto di angherie ampiamente descritte dai biografi della beata dei secoli scorsi, tra cui va ricordato in particolare Silvio Pellico.
Questa situazione degenerò, secondo la tradizione, in una sera di primavera del 1383, quando la matrigna, non vedendo rincasare la ragazza andò a cercarla personalmente. Si recò sul monte Tucri che sovrasta l'abitato e, poco oltre l'antichissima chiesa di San Giovanni, trovò Panacea in preghiera. Adirata Margherita la rimproverò e in un eccessivo scatto d'ira, forse senza volerlo, la percosse violentemente uccidendola; accortasi dell'accaduto la donna si gettò da un burrone in
preda alla disperazione. La notizia si sparse subito nel paese e nel contado circostante e richiamò molta gente presso il corpo di Panacea  che fu trasportato a Ghemme, per essere sepolto accanto a quello della madre, deposto nel cimitero adiacente la parrocchiale di Santa Maria. Il culto per la pastorella valsesiana, che ricevette conferma papale nel 1867, si sviluppò presto, già all'inizio del 1400 vennero edificati due oratori in sua memoria: uno sul luogo del martirio, Beata al Monte, e uno in paese dove venne accolta la salma, Beata al Piano.
Vero centro però della devozione alla patrona della Valsesia è stata sempre la chiesa di Ghemme, all'interno della quale, in un grande scurolo opera di Alessandro Antonelli, sono ancora oggi conservate le sue reliquie, meta ogni anno, il primo venerdì di maggio, di numerosi fedeli provenienti dalla Valsesia e dal Novarese, tra cui i più numerosi i quaronesi che compiono a piedi il cammino. Lungo i secoli l'affetto popolare che circonda Panacea non venne mai meno, manifestandosi in più occasioni: come i trasporti o le peregrinazioni delle sue spoglie, e dando origine ad una ricca produzione iconografica, sia in valle, dove ogni località ne possiede traccia, sia oltre i confini della diocesi. Generalmente Panacea è presentata nel momento del martirio, con gli attributi tradizionali dei fusi, del gregge di pecore o del fascio di legna ardente,accesosi spontaneamente secondo la tradizione per avvertire i compaesani della sua morte, ma forse, più probabilmente, ricordo di falò celebrativi in sua memoria. La figura di questa ragazza valsesiana, la cui ricorrenza, attualmente, è fissata al 5 maggio per la diocesi di Novara, il primo venerdì dello stesso mese per il vicariato della Valsesia, è stata proposta dai vescovi come modello di santità laicale, una fede vissuta nel quotidiano, capace di superare avversità e incomprensioni, alimentata dalla preghiera e testimoniata nella carità, fino alla morte, al punto che il popolo ha sempre visto in lei la propria mediatrice ed in lei si è sempre identificato: una Santa dalla fisionomia tipicamente valsesiana.  
(Autore: Damiano Pomi)

Panacea, nel linguaggio comune, è la medicina che guarisce tutti i mali, mentre nell’agiografia cristiana è la prova provata che anche Cenerentola va in Paradiso. A portare questo nome strano è una ragazzina vissuta nella seconda metà del 1300, la cui esistenza storica ed il cui martirio sono ben documentati da antichissime testimonianze, che nei secoli hanno stimolato la fantasia di pittori e scrittori, tra i quali sicuramente spicca Silvio Pellico.
La nostra Panacea nasce a Quarona (cittadina tra Borgosesia e Varallo) nel 1368 ed è presto orfana di mamma. Papà si risposa con una certa Margherita, anch’essa vedova e con una figlia, e per la piccola cominciano i guai. Matrigna e sorellastra si coalizzano infatti contro di lei, riservandole i lavori più pesanti e umili, deridendola per la sua pietà, contestando i suoi gesti di carità. Le biografie, infatti, concordano nel descrivere Panacea come una fanciulla che prega molto, si prende cura dei malati e soccorre i poveri: una cristiana autentica,dunque, che per di più sopporta con eroica pazienza le cattiverie con cui ogni giorno è bersagliata in casa. Panacea, dunque è molto di più della scialba “Cenerentola”, vittima di una gelosia familiare o di una semplice antipatia.
Contro questa ragazzina che vive con semplicità, ma anche con intensità, la sua fede è in atto una vera e propria persecuzione “casalinga”, che raggiunge il suo culmine in una sera della primavera 1383. Panacea, che ha 15 anni e quindi non è più una bambina, non torna quella sera dal pascolo con la puntualità che la matrigna pretende.
Con la rabbia in cuore e il risentimento di sempre quest’ultima va a cercarla e la trova nei pascoli che sovrastano  Quarona e la sua ira si scatena constatando che Panacea sta ancora pregando. L’ira, si sa, è sempre cattiva consigliera, e la donna passa facilmente dalle parole ai fatti, colpendo ripetutamente la ragazza con un oggetto contundente, forse un fuso o un bastone trovato sul posto, fino ad ucciderla.
Forse è davvero un omicidio preterintenzionale, perché nessuno è autorizzato a pensare che l’astio della matrigna potesse in realtà nascondere il desiderio di ucciderla. Lo dimostra anche il fatto che la matrigna, in preda alla disperazione per quanto compiuto, va subito a suicidarsi, gettandosi in un vicino burrone. Per Panacea, invece, scoppia la devozione popolare, perché la gente vede nella sua morte un autentico martirio. La salma viene portata a Ghemme, per essere sepolta accanto alla sua mamma che l’aveva lasciata orfana troppo presto.
In quella tomba, però, resta poco perché le sue reliquie sono presto portate nella chiesa parrocchiale, circondate di venerazione e meta di pellegrinaggi. La devozione per Panacea attraversa i secoli e si trasforma in culto popolare, che ottiene la conferma papale nel 1867.
Per tutta la Valsesia indicata semplicemente come “la Beata”, viene festeggiata il 5 maggio con cerimonie religiose e una fiera secolare, mentre i vescovi indicano nella Beata Panacea un modello di santità laicale e sottolineano la sua fede vissuta nel quotidiano, capace di superare avversità e incomprensioni, alimentata dalla preghiera e testimoniata dalla carità.

(Autore: Gianpiero Pettiti - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Panacea De' Muzzi, pregate per noi.

*Beato Pellegrino da Falerone – Sacerdote (27 Marzo)
m. San Severino Marche, Macerata, 1233
Martirologio Romano:
A San Severino Marche, Beato Pellegrino da Falerone, sacerdote, che fu tra i primi discepoli di San Francesco e, recatosi pellegrino in Terra Santa, suscitò l’ammirazione degli stessi Saraceni.  
Presentatosi davanti a San Francesco si sentì dire: "Tu servirai Dio nell'umile condizione di fratello religioso e ti applicherai soprattutto nella pratica dell'umiltà".

Pellegrino, che veniva da una nobile e ricca famiglia di Falerone (AP) ed aveva studiato filosofia e diritto canonico  a Bologna, accettò la profezia di San Francesco come un comando e per tutta la vita volle restare nella modesta condizione di religioso fratello, addetto ai servizi più umili e spesso nascosto nei conventi più poveri e sperduti.
Il Beato Bernardo da Quintavalle lo considerò, fra i primi discepoli di San Francesco, uno dei religiosi più esemplari.
Fra Pellegrino, spinto da sacro fervore, decise di recarsi in Terra Santa, per cercare il martirio per mano degliinfedeli, a quel tempo devota aspirazione di molti frati. In realtà, però, trovò rispetto e tolleranza.
Tornato in Italia, Pellegrino da Falerone riprese la sua vita umile e nascosta, ma per quanto si nascondesse, la fama della sua santità si diffondeva dappertutto.
Negli ultimi anni della sua vita, ancor giovane, si fermò presso il convento di San Severino Marche (MC) e lì morì nel 1233. Dopo la sua morte avvennero nuovi miracoli che lo resero ancora più amato e venerato. Pio VII il 31 luglio 1821 ne approvò il culto.  

(Autore: Elisabetta Nardi - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Pellegrino da Falerone, pregate per noi.

*San Ruperto – Vescovo (27 Marzo)

m. 27 marzo 718
O
riginario dell'Irlanda, figlio di una famiglia di origini nobili, Ruperto è il patrono di Salisburgo.
Dopo aver ricevuto una formazione monastica irlandese, infatti, attorno al 700 si recò in Baviera dove si dedicò alla predicazione e alla testimonianza monastica itinerante, ottenendo buoni risultati a Regensburg e Lorch.
Con l'appoggio del conte Theodo di Baviera, Ruperto fondò prima una chiesa dedicata a san Pietro sul lago Waller e poi un monastero sul fiume Salzach, nei pressi dell'antica città romana di Juvavum.
Fu questo il nucleo della nuova Salisburgo («la città del sale»), che lo riconosce non solo come primo vescovo ma anche come rifondatore.

L'iconografia lo rappresenta, infatti, con un barile o un secchio pieno di sale. Morì il 27 marzo, il giorno di Pasqua, dell'anno 718. (Avvenire)
Patronato: Salisburgo
Emblema: Bastone pastorale, Sale
Martirologio Romano: A Salisburgo in Baviera, nell’odierna Austria, San Ruperto, vescovo, che, abitando dapprima a Worms, su richiesta del duca Teodone giunse in Baviera e costruì a Salisburgo una chiesa e un monastero, che governò come vescovo e abate, divulgando da lì la fede cristiana.
Salisburgo, la bella città austriaca la cui fama è collegata con quella del suo figlio più illustre, Wolfgang Amadeus  Mozart, trae il suo nome dalle vicine ricche miniere di salgemma: esso significa infatti "città del sale".
Anche il suo primo vescovo e principale patrono, San Ruperto, viene rappresentato con una saliera in mano (o con un barile, ricolmo appunto di sale e non di vino, come pensa qualche studioso non ben informato).
Egli è l'unico Santo locale festeggiato, oltre che nelle zone di lingua tedesca, anche nell'Irlanda: in realtà, fu anch'egli un tipico rappresentante dei " monaci irlandesi" itineranti.
San Ruperto discendeva dai Robertini o Rupertini, un'importante famiglia che dominava col titolo di conte nella regione del medio e alto Reno.
Da questa famiglia nacque anche un altro San Ruperto (o Roberto), di Bingen, la cui vita venne scritta da Sant' Ildegarda.
I Robertini erano imparentati con i Carolingi e centro della loro attività era Worms.
Qui San Ruperto ricevette la sua formazione di stampo monastico irlandese.
Verso il 700, come i suoi maestri, si sentì spinto alla predicazione e alla testimonianza monastica itinerante e si recò perciò in Baviera, ottenendo buoni risultati a  Regensburg e Lorch.
Appoggiato dal conte Theodo di Baviera, sul lago Waller, 10 km a nord-est di Salisburgo, là dove ora è Seekirchen, fondò una chiesa, dedicata a San Pietro.
Ma il luogo non appariva adatto ai progetti di S. Ruperto che chiese al conte un altro territorio sul fiume Salzach, nei pressi dell'antica e cadente città romana di Juvavum.
Il monastero che vi costruì, dedicandolo a San Pietro, è il più antico di tutta l'Austria e insieme il nucleo della nuova Salisburgo.  
Il suo sviluppo fu opera anche di dodici collaboratori che Ruperto fece venire dalla sua terra d'origine: tra essi Cunialdo e Gislero, onorati come santi.
Non lontano dal monastero di San Pietro, sorse pure un monastero femminile, affidato alla direzione dell'abbadessa Erentrude, nipote di Ruperto.
Fu questo manipolo di coraggiosi che fece sorgere la nuova Salisburgo, che a giusto titolo riconosce in Ruperto il proprio rifondatore:
"La sua figura mostra come una personalità piena di forza e di sensibilità, affondando le radici nelle profondità dello spirito cristiano, è in grado di impedire con intelligenza e senza limiti geografici qualsiasi decadimento sia interiore che esterno " (J. Henning).
San Ruperto morì il giorno di Pasqua, e cioè il 27 marzo del 718. Le sue reliquie vengono conservate nella magnifica cattedrale di Salisburgo edificata nel sec. XVII.

(Autore: Piero Bargellini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Ruperto, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (27 Marzo)

*San
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